A processo per aver chiamato i carabinieri, denunciando l’omicidio di una donna che - secondo i militari - altri non era che l’autrice della telefonata. È accaduto a S.M., residente a Caramagna Piemonte, accusata di procurato allarme e di minaccia nell’ambito di due diversi episodi.
Il primo, avvenuto a fine dicembre del 2020, riguardava un’accesa lite con il marito, nell’ambito della quale erano intervenuti - come già molte volte in precedenza - i carabinieri di Racconigi. La donna ha trascorsi di alcolismo ed è stata seguita per un ventennio dal Serd: ora si trova in una comunità terapeutica. Il litigio di quella sera, secondo quanto riferito dai presenti, sarebbe scoppiato perché lei voleva allontanarsi da casa e sottrarsi alla vigilanza del marito che le impediva di abusare di alcol. Mentre il personale dell’Arma era già presente, la donna era rientrata nell’abitazione e poi uscita con un coltello da cucina: “Ha fatto un gesto come per abbracciarlo col coltello in mano, però non è riuscita a colpirlo e l’arma è caduta. Tutti e due urlavano e si minacciavano” ha raccontato il carabiniere scelto Matteo Marangi. Il marito dell’imputata, dal canto suo, ha precisato di non essersi mai sentito intimorito: “Dopo averle tolto il coltello ho chiamato l’ambulanza, perché rischiava il coma etilico. Ora andiamo d’accordo, lei è in comunità e non beve più”.
L’imputata, interrogata sui fatti, ha ammesso di non ricordare nulla di quanto avvenuto quella sera. Allo stesso tempo, ha negato con convinzione l’altro addebito che le era stato mosso: quello - appunto - di aver denunciato il suo stesso omicidio al 112, circa un mese dopo quella lite. “La telefonata non l’ho fatta io, - ha affermato - ero insieme ad alcune amiche e anche quella sera ero ubriaca. Mi sono svegliata all’alba in macchina, il telefono era spento e quando l’ho acceso ho visto il numero dei carabinieri di Savigliano”. Circa le ragioni per cui qualcuno potrebbe aver ideato un tiro di quel genere, l’accusata ha avanzato un’ipotesi: “Qualcuna delle donne presenti ce l’aveva con mio marito e ha telefonato col mio cellulare”.
La chiamata era stata ricevuta dalla centrale operativa di Savigliano: una persona che si qualificava solo come “Giuliana” aveva riferito che S.M. era morta e che sarebbe stata trovata nelle immediate vicinanze dell’abitazione, tra i cespugli oppure sul retro. L’operatrice del 112 aveva subito riconosciuto nella sedicente “Giuliana” la voce di S.M., alterata dall’alcol, ma aveva comunque attivato il protocollo previsto in queste circostanze. La pattuglia dei carabinieri inviata da Cavallermaggiore non aveva trovato nessun cadavere e nemmeno tracce della presunta vittima: “Mentre eravamo lì - ha raccontato il maresciallo capo Pierluigi Sirizzotti - al marito arrivavano telefonate da una donna che lui ci diceva essere S.M.: la voce era quella di una persona palesemente ubriaca”.
Il pubblico ministero Anna Maria Clemente aveva chiesto per l’imputata la condanna a sei mesi e dieci giorni di carcere per entrambe le imputazioni. Da parte della difesa, rappresentata dall’avvocato Luisella Cavallo, si è sostenuta invece l’insussistenza degli elementi propri della minaccia in riferimento all’episodio del coltello. Quanto al procurato allarme, ha rilevato il legale, “non ci sono prove che oltre ogni ragionevole dubbio: significativo che a seguito dell’intervento lei non sia stata ritrovata”. Agli atti risultano ben 46 richieste di intervento da parte della stessa persona in un biennio, ma in tutti gli altri sopralluoghi si era sempre fatta trovare sul posto.
Il giudice Sandro Cavallo ha condannato l’imputata per la minaccia a un anno di libertà vigilata in comunità, assolvendola invece per l’ipotesi di procurato allarme per non aver commesso il fatto.