RODELLO - Il Ferragosto di Fenoglio

Sessantanni fa il racconto veniva pubblicato da Garzanti nel volume “Un giorno di fuoco”

Dino Boscolo 15/08/2023 15:06

Sessant’anni fa, nel 1963, usciva per Garzanti il volume “Un giorno di fuoco”, un’antologia di racconti: il suo autore, Beppe Fenoglio, era morto da pochi mesi. “Ferragosto” è un racconto straordinariamente intenso, duro, una metafora efficace del contrasto città-campagna, città-paese. È anche una tragica storia d’amore che sfida i pregiudizi senza riuscire, purtroppo, a sconfiggerli. Toni, il protagonista, è un giovane orignario di Rodello, nelle Langhe, che ha lasciato la sua terra per andare a lavorare a Torino. L’aveva sempre detto: “Escluso fermarsi al paese a far la morte del pidocchio”. Nella grande città si è innamorato di una donna, di cui non viene rivelato il nome, che per sopravvivere aveva fatto la prostituta.
 
Il giorno di Ferragosto vuole presentarla a suo fratello e alla sua famiglia, pur sapendo che cosa lui pensi della donna: “C’è proprio bisogno che tu vada a cercarti la donna nel fango? E nel fango più fango che ci sia?”. Insomma una donna differente dalla sua Rina e dalle altre brave donne di paese. Una differenza che fa di lei un’appestata. Il racconto è soprattutto la descrizione del viaggio in corriera da Torino a Rodello, che fa emergere la grande abilità narrativa di Fenoglio e la sua insuperabile capacità di penetrare nell’intimo della sua terra. Toni per tutto il viaggio si preoccupa che la futura moglie non sia troppo appariscente, non dia troppo nell’occhio. Pranzano in un’osteria, una di quelle che oggi i turisti cercano disperatamente nelle Langhe: “Si sedettero a un tavolo a muro, sotto un quadro del Moro di Venezia e un quadratino di carta smerigliata per sfregarci i fiammiferi. La padrona preparò ben pulito, loro due bevevano a bicchieri acqua di pozzo…la padrona portò salame e burro…”. Durante il pranzo parlano del fratello di Toni, Pietro, più vecchio di lui, rimasto attaccato alla casa e alla terra di famiglia: incarna uno stile di vita opposto a quello di Toni, verso il quale ha sentimenti contrastanti: è forte il legame di sangue, certo, ma ci sono anche il disprezzo, l’invidia (“perché sono diventato torinese”), un debito di 45 mila lire ancora da saldare con lui.
 
Lasciata l’osteria, i due si dirigono a piedi verso la casa di Pietro. Il loro è un legame in cui l’attrazione fisica conta molto e in un boschetto di pinastri ingialliti dal gran sole, in un punto in cui la natura era particolarmente aspra, si amano: “Sulla mia terra, una volta sulla mia terra” dice Toni. Dopo essersi ricomposti, raggiungono finalmente la casa del fratello, che era anche casa di Toni: “Era bassa e sbilenca come se si fosse ricevuta sul tetto una tremenda manata e non si fosse mai più riassestata: grigia del medesimo grigio delle rocche del vallone”.
 
I due si fermano sull’aia, mentre sull’uscio di casa appare il fratello, anche lui grigio come la casa. Il dialogo tra i fratelli è subito glaciale: “Hai finito per portarla… Sì che l’ho portata, a vedere la casa dei miei vecchi”. Quando Toni cerca di entrare in casa con la donna, il fratello lo blocca: “Questa è la casa dei tuoi vecchi e tu c’entri e ci stai come un padrone. Ma lei resti sull’aia”. Il ritmo del racconto, fino a questo punto lento, cambia improvvisamente, acquista velocità: Pietro entra in casa e chiude la porta, Toni si scaglia contro la porta per sfondarla. La donna capisce che la situazione si mette male e urla per dissuadere Toni dall’impresa. Ma lui è una furia: “Apri, bastardo!”. Pietro da dentro gli urla: “Se m’entri di forza, t’ammazzo!”. Il finale è degno delle migliori tragedie classiche: dopo spinte e controspinte Toni ha la meglio e “volò dentro come una palla di cannone”. La donna, dall’aia, non può che assistere alla scena: “Toni per l’impeto non s’era ancora fermato e suo fratello gli arrivò dietro con un’accetta e da dietro gliela calò sulla testa spaccandogliela come una noce”.

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