CUNEO - 2 giugno, quando la Granda scelse la monarchia

Nel referendum del 1946 Cuneo fu la provincia più ‘sabauda’ del Nord. Votarono monarchico tutti i grandi centri tranne il capoluogo e Fossano, mentre la repubblica prevalse nelle valli della Resistenza

Andrea Cascioli 02/06/2020 20:53

Javier Cercas ha intitolato Soldati di Salamina un suo bel romanzo storico di quasi vent’anni fa sulle vicende della guerra civile spagnola. La lunga storia del ‘secolo breve’ in effetti è ricca di avvenimenti ormai lontani dal nostro mondo quanto lo fu la battaglia con cui i greci sconfissero i persiani di re Serse esattamente 2500 anni fa.
 
È senz’altro il caso del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 tra monarchia e repubblica, che pure per l’Italia dell’epoca rappresentò un primo spartiacque tra tutto ciò che era stato e ciò che sarebbe venuto. Il Paese si trovò spaccato in due come mai prima di allora: da una parte il Nord repubblicano, segnato dalla terribile eredità della guerra civile, dall’altra il Sud monarchico che premeva per il ritorno all’ordine e alla pace sociale. Solo in quattro province del Settentrione i consensi soffiarono in direzione opposta al ‘vento del Nord’: Padova, Bergamo, Asti e Cuneo. La Granda però fa davvero storia a sé, anzitutto nelle proporzioni della vittoria monarchica. Mentre nelle altre realtà lo scarto rimase contenuto (poco più dell’1% ad Asti e Bergamo, un più consistente 4% a Padova), all’ombra del Monviso la fedeltà alla casa regnante venne riaffermata con un risultato che non lasciava margini alle interpretazioni: 56,15% contro 43,85%.
 
Ancora nel marzo precedente, tre mesi prima della chiamata alle urne, il neonominato prefetto Renato Pascucci - pur stupito per l’”imprevedibile insuccesso del Pci” nelle prime elezioni amministrative - pronosticava una “forte maggioranza a favore della Repubblica”. La stessa previsione veniva ridimensionata alla vigilia del referendum in “apparente maggioranza repubblicana”. Le contestuali elezioni per l’Assemblea Costituente confermarono gli orientamenti emersi nei municipi: Cuneo, unita nella circoscrizione elettorale con le province di Asti e Alessandria, contribuì più delle altre al trionfo della Dc, affermatasi nella Granda con 157mila voti validi su 342mila.
 
Sarà proprio il voto cattolico a contribuire in misura determinante al successo della monarchia, tanto più inaspettato in una provincia che già si fregiava del titolo di culla della Resistenza. Non va dimenticato del resto che erano di orientamento monarchico anche le brigate partigiane autonome di Enrico ‘Mauri’ Martini, maggioritarie nelle Langhe, nel Braidese e in parte del Monregalese. Alla fine l’opzione ‘continuista’ venne abbracciata da 146 dei 209 comuni che componevano allora la provincia Granda, compresi i due che dopo i trattati di pace del 1947 e un (altro) contestato referendum sarebbero passati alla Francia: a Tenda vinse la repubblica per 799 voti contro 733, a Briga Marittima si affermò invece la monarchia con 601 voti contro 468. Anche in cinque delle ‘sette sorelle’ prevalse la scelta sabauda: con percentuali ‘bulgare’ ad Alba (66,8%) e Bra (55,8%), più di misura a Mondovì (51%), a Saluzzo (51,8%) e a Savigliano (50,3%). Solo Cuneo e Fossano si allinearono alle tendenze dominanti nel Nord Italia che sarebbero poi risultate vincenti.
 
Nel capoluogo la repubblica ottenne 12457 voti contro i 10631 della monarchia (il 53,9%): votò l’84,22% degli aventi diritto, quasi tremila in più rispetto a quelli che in marzo avevano eletto il primo Consiglio comunale dell’era democratica. I partiti dichiaratamente repubblicani (Psiup, Pci, Partito d’Azione, Concentrazione Democratica Repubblicana, Pri e il minuscolo Partito Comunista Internazionalista) ottennero alla Costituente 9884 voti. Nella sua Storia di Cuneo, lo storico di simpatie monarchiche Aldo Mola accredita gli ulteriori 2573 voti in favore della repubblica al contributo degli elettori di destra provenienti dal Partito dei Contadini e dal Fronte dell’Uomo Qualunque (approdo di nostalgici della Rsi in provincia di Cuneo), ai seguaci del liberale repubblicano Manlio Brosio e a una percentuale del voto democristiano stimata nel 13%, all’interno del quale rientravano le Acli guidate da Tancredi Dotta Rosso. Anche a Fossano la Democrazia Cristiana diede prova di minore compattezza, dividendosi tra l’ala conservatrice guidata dal sindaco Luigi Bima e quella progressista animata dai giovani professori Giuseppe Manfredi e Lorenzo Burzio e dal cattolicesimo sociale di Italo Mario Sacco.
 
La divisione geografica del voto restituì comunque la spaccatura tra le valli montane che avevano vissuto con maggiore intensità la guerra partigiana e il resto della provincia, meno ansioso di cambiamenti. Il voto repubblicano si impose infatti nella fascia di comuni compresa tra la valle Pesio e la valle Po, con l’eccezione dell’Infernotto. In tutta la valle Vermenagna (con picchi del 72,3% a Robilante e del 72,5% a Vernante) e in buona parte della valle Stura (Aisone, Demonte, Gaiola, Rittana, Roccasparvera, Vinadio e Valloriate, quest’ultima con un eclatante 84,8%) prevalse lo strappo con i regnanti. Più frastagliato il risultato in valle Gesso dove Entracque e Roccavione scelsero la repubblica mentre Valdieri, storica meta vacanziera di re Vittorio Emanuele III e della regina Elena, confermò seppur di poco la sua vocazione monarchica. Nelle valli Maira e Grana la repubblica sopravanzò di parecchio la monarchia ad Acceglio, Cartignano, San Damiano Macra, Stroppo, Monterosso Grana, Valgrana e Pradleves (qui i comunisti misero a segno il miglior risultato nell’intera provincia, arrivando al 47,2% cui si sommava il 20,2% dei socialisti del Psiup, contro il 17,4% appena della Democrazia Cristiana).
 
Anche alcuni dei principali centri attorno a Cuneo confermarono - seppur di misura - l’indirizzo filorepubblicano del capoluogo: a Borgo San Dalmazzo il testa a testa finì con 1599 voti contro 1528, nella martirizzata Boves 2403 a 2337. La repubblica vinse inoltre a Bernezzo, Cervasca, Chiusa Pesio e Vignolo, mentre la monarchia ottenne la maggioranza a Busca (con un netto 69%), Caraglio, Centallo, Dronero e Peveragno. Un’altra ‘isola repubblicana’ emerse nel Monregalese tra Ceva (per soli 85 voti), Garessio, Ormea, una parte della val Tanaro e dell’Alta Langa. Per il resto la monarchia dilagò con sparute eccezioni (tra cui Castelletto Stura, Margarita, Manta e Verzuolo) nei centri della pianura e in non pochi comuni alpini, toccando addirittura il 91,8% nella piccola Bellino e l’85,6% a Murello in valle Varaita. Nettissima la prevalenza sabauda in quasi tutte le Langhe e il Roero (sopra l’80% a Sinio, Bossolasco e Santo Stefano Roero), a Marene (77,2%) e a Racconigi (67,2%), città natale di Umberto II che vi era tornato durante la campagna referendaria e sede delle ‘Reali Villeggiature’ fin dal tempo di Carlo Alberto.
 
Se la provincia si rivelò a un tempo ‘bianca’ e ‘monarchica’ soprattutto per opera dei democristiani, pure non va dimenticato il contributo offerto alla causa dai liberali a cominciare dal loro esponente di punta nella Granda, Luigi Einaudi. Il politico di Carrù, eletto alla Costituente con l’Unione Democratica Nazionale, si prodigò nel difendere le ragioni della corona con un articolo comparso sul quotidiano torinese L’Opinione e intitolato Perché voterò per la monarchia: qui il senatore del Regno invitava a soprassedere sugli “errori commessi in un tempo recente, che è un attimo nella vita dei popoli” e a non rimettere in discussione la continuità dello Stato. Per un paradosso della storia, sarà proprio Einaudi nel 1948 - raccogliendo il testimone di un altro monarchico, il presidente della Repubblica provvisorio Enrico De Nicola - a succedere come capo di Stato repubblicano all’ex re Umberto di Savoia.

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