“La sala del pranzo è vasta e anche bella e il pranzo ordinario a 2 franchi e 50 centesimi può anche dirsi sufficiente; ma le camere destinate ai forestieri, benché portino scritto pomposamente sulla porta i nomi delle prime capitali d’Europa, e a primo aspetto alcune siano alte e quasi belle, in realtà poi sono meschine e ben sudicie. In generale, avendo una sola apertura sulla balconata che circola tutt’attorno al cortile dell’albergo, riescono molto incomode e poco areate. La temperatura interna nell’estate è quindi soffocante e impura per la quasi nessuna pulizia; e nell’inverno poi dovete gelarvi, porte e finestre chiudendosi ben a stento, sicché l’aria vi penetra per ogni verso”.
Nel 2000 Stephen Kaufer ebbe l’intuizione di lanciare sul web TripAdvisor, un sito dove i clienti di alberghi e ristoranti possono lasciare le loro valutazioni sulla struttura visitata. Inutile raccontare che è stato un successo, in quanto tutti sanno che oggi la piattaforma virtuale statunitense è il più grande sito di viaggi della rete. Quello che è più curioso raccontare è che le parole di attacco del pezzo sono vecchie di 181 anni. Insomma, già nel luglio 1840 c’era chi raccoglieva le sue impressioni su osterie e locande. Nel caso in questione a scrivere, nei suoi “Frammenti d’un viaggio in Piemonte”, è l’abate Giuseppe Francesco Baruffi, docente universitario e consigliere comunale di Torino. Non soggiornò in Provenza o in Normandia prima dell’avvento dell’euro, ma all’albergo della Barra di Ferro di Cuneo, un tempo palazzo Destefanis.
Baruffi, originario di Mondovì - che gli ha dedicato una scuola superiore - doveva essere un tipo piuttosto esigente. Eppure è lui stesso a raccontare che all’epoca l’albergo in questione godeva “di una quasi rinomanza di essere uno dei migliori”. Una considerazione evidentemente ironica, visto che nelle righe successive il presbitero, tra “letti di legno vivaio di schifosi insetti” e “sorci a spasso per la stanza e, talvolta, anche sul letto”, stronca il servizio e scrive: “È questo uno dei più antichi alberghi della città; e benché situato in un meschino viottolo è tuttora reputato il primo a malgrado della rivalità con le due osterie del London e dei Tre Re”. Il seguito è impietoso: “E fosse pure, che una onesta rivalità e concorrenza beninteso, destassero un po’ di riforma nelle nostre osterie di provincia, che non possiamo ancora chiamare col nome più civile di alberghi”. Infine, con sincerità , ammetteva che quello era lo stato di gran parte delle osterie di provincia, invitando tutti gli osti del nostro bel Piemonte a recarsi in Svizzera a imparare il mestiere dell’hôtellerie.
L’origine del nome
Quello che Baruffi descrisse come “meschino viottolo” è l’attuale vicolo Quattro Martiri, anche se il palazzo che un tempo ospitava l’albergo della Barra di Ferro, al termine della strada, è al civico 28 di via Saluzzo. Poco si sa riguardo all’origine e al significato del nome. Il cronista del primo Novecento cuneese Camillo Fresia, nel suo libro “Vecchia Cuneo - miscellanea cronistorica”, da cui abbiamo attinto a mani basse per raccogliere molte delle informazioni contenute in questo articolo, ipotizza che: “Su qualche foglio rimasto di quelli che avevano servito, nei primi tempi, alla compilazione del conto per gli avventori, fosse disegnato un uomo, dalle forme erculee, sorreggente una enorme spranga, o sbarra: una figura poco diversa da quella che, anche in tempi a noi vicini, si è vista sull’insegna di altri alberghi piemontesi aventi la stessa denominazione; figura che forse si vede ancora oggidì in qualche paese”. Un’altra ipotesi, che viene alla mente per analogia, è che il nome derivi dall’esercizio della prostituzione in epoca medievale. L’attuale via Bertola di Torino un tempo era chiamata via Barra di Ferro. Questo da quando si erano insediate alcune prostitute e una sbarra a saliscendi delimitava l’area entro la quale potevano adescare i loro clienti. A dirla tutta quest’ultima più che un’ipotesi è una suggestione di chi scrive, che ha buone probabilità d’essere una completa fesseria, ma che valeva la pena raccontare.
Gli inizi sotto Napoleone
La spinta per l’avvio dell’albergo della Barra di Ferro era arrivata, agli sgoccioli del Settecento, da impiegati e ufficiali francesi venuti a stabilirsi a Cuneo, capoluogo del “Dèpartement de la Stura” istituito da Napoleone Bonaparte. Fu sotto la denominazione dei cugini d’oltralpe che la struttura nacque e iniziò a farsi conoscere nel circondario. Di com’era l’albergo nei decenni post-restaurazione abbiamo già detto. Facendo un deciso balzo in avanti nel tempo arriviamo a cavallo tra il secolo lungo e il secolo breve, quando il giornalista nizzardo Dominique Durandy scriveva nel suo “Carnet d’un Automobiliste” parole decisamente più lusinghiere rispetto a quelle dell'abate Baruffi: “Di tutti (gli alberghi di Cuneo n.d.r.) il più celebre è la Barra di Ferro, vasta hotellerie dai balconi invasi dai glicini, dove le cucine si accostano familiarmente alle rimesse. È un luogo di ristoro famoso; e, in tutta la regione, i ghiottoni insaziabili parlano con compiacimento, trangugiando la saliva, dei pasti formidabili allestiti dai capi-cuochi della casa”.
Il lettore perdonerà qualche volo pindarico sulla linea del tempo. E dire che sarebbe stato il caso di farne altri per ricostruire la cronologia di tutti gli albergatori che hanno gestito la “Barra”, ma per brevità ne citiamo uno: Giuspin d’la Bara, morto a 55 anni di età il 2 giugno 1884. L’allora giovane avvocato Luigi Fresia - poi due volte sindaco di Cuneo nel primo Novecento - gli dedicò un coccodrillo da che ancora oggi sembra una fotografia: “Non vi fu, da un sette lustri a venire fino a questi ultimi giorni, dimostrazione pubblica o privata, convegno geniale di cittadini, festa qualsiasi, cui il nome di Giuspin non siasi associato; perché, volere o non, se si desiderava le cose ammodo, bisognava ricorrere a lui. Nelle grandi occasioni, la sua bella testa di leopardo schiomato guizzava via tra il scintillio delle mense smaglianti; in mezzo a una folla di camerieri, pronti ai suoi cenni, egli stava là, vigile, attento, dominando il campo con uno sguardo, con un batter di ciglio; i convitati se lo additavano fra loro con compiacente ammirazione nell’esercizio delle sue funzioni e molte volte in fin di tavola se lo prendevano con loro, sicuri di non metterlo in imbarazzo. Poiché, in quella testa piena di spirito, c’era la stoffa di un diplomatico, d’un uomo di stato; e la sua caustica mordacità era degna d’un Giovenale (il poeta romano autore delle celebri ‘Satire’ n.d.r.)”. Anche dopo la morte di Giuspin l’attività proseguì con successo e il favore della clientela verso la “Bara" crebbe ancora, toccando il suo apice sul finire dell’Ottocento.
Una clientela a dir poco “regale”
Scrive Camillo Fresia: “Degli avvenimenti cittadini ch’ebbero un’eco di tripudio nelle sale della Barra di Ferro e dei personaggi eminenti che vi trovarono ospitalità, vi sarebbe tanto da scriverne un volume”. Difficile dargli torto, ma proviamo a raccontare di qualcuno di questi. Tra i sovrani di Casa Savoia si fermò per primo alla Barra di Ferro Vittorio Emanuele I. Era il 14 marzo 1821 e poche ore prima il re aveva appena abdicato in favore del fratello Carlo Felice, sulla spinta della rivoluzione liberale e dei moti carbonari. Il “Tenacissimo”, tra le altre cose fondatore del Corpo dei Carabinieri reali (da cui deriva l’Arma), fece tappa a Cuneo prima di prendere la via di Nizza, dove visse per qualche tempo. In circostanze non troppo dissimili vi soggiornò Carlo Alberto nel 1849, mentre Vittorio Emanuele II, di casa in valle Gesso per le sue famose battute di caccia, vi tornò a più riprese, così come re Umberto I. Si fermò più volte in via Saluzzo anche la regina Margherita.
Un personaggio molto discusso
Il 30 aprile 1906 prese stanza alla Barra di Ferro un personaggio molto discusso negli ultimi anni: Leopoldo II del Belgio. Nel 2020, sull’onda delle proteste per l’omicidio di George Floyd, attivisti e manifestanti del “Black Lives Matter” hanno preso di mira le statue erette in suo onore in numerose città fiamminghe. La motivazione? Sull'eredità del “Re Costruttore” pesa la brutale e sanguinosa amministrazione dell’impero coloniale: sotto il suo regno il Congo è stato depredato delle proprie ricchezze e sono state uccise tra le 3 e le 10 milioni di persone. Molti storici considerano le atrocità commesse tali da poter parlare di un autentico genocidio.
Leopoldo II si fermò a Cuneo a causa di un guasto all’automobile che lo stava conducendo a Nizza. Accompagnato dal conte Cornet de Ways-Wart, arrivò all’albergo a piedi e pranzò alla tavola comune nel più completo anonimato. “Soltanto al momento della partenza venne riconosciuto”, scrive ancora Fresia.
Cavour, l’eroe dei due mondi e… due futuri papi
Tra i tanti che banchettarono ai tavoli dell’albergo o vi trascorsero una notte ci sono diversi uomini che hanno fatto la storia del nostro Paese. Uno su tutti “l’eroe dei due mondi” Giuseppe Garibaldi, venuto a passare in rassegna i Cacciatori delle Alpi il 7 aprile 1859. Sei anni prima era toccato a Camillo Benso conte di Cavour degustare le prelibate pietanze della cucina cuneese. In quegli anni passarono per quelle stanze anche il ministro degli Interni Urbano Rattazzi, quello dei Lavori Pubblici Pietro Paleocapa, il più volte presidente del Consiglio Alfonso La Marmora. E poi, in epoche diverse, Crispi, Cairoli, Deforesta, Modena, ma anche il patriota Massimo D’Azeglio. Da registrare inoltre il passaggio dalla Barra di due papi, nel periodo in cui dovevano ancora salire al soglio pontificio: si tratta di Giacomo Dellachiesa (Benedetto XV) e Achille Ratti (Pio XI), in quel momento cardinali.
L’ultimo “grande banchetto” per Giovanni Giolitti
L’ultimo “grande banchetto” organizzato alla Barra di Ferro si tenne in onore del monregalese Giovanni Giolitti, habitué del locale. Il 14 novembre 1912 il cinque volte presidente del Consiglio tornò a Cuneo per la prima volta dopo la fine della guerra di Libia. Il capoluogo della Granda gli conferì la cittadinanza onoraria, riservandogli un’accoglienza trionfale. Nell’occasione il “maestro del trasformismo” tenne un discorso appassionato: “Nei grandi avvenimenti che testè si sono svolti - disse in uno dei passaggi salienti - io ho fatto la parte dell’uomo che porta la bandiera. Ma che cos’è il portabandiera senza chi lo segua? Se non fosse stato del popolo, io certo non sarei arrivato in porto”. Camillo Fresia, forse esagerando, commentava: “Allora i discorsi che si pronunciavano ai banchetti della Barra assumevano una tale importanza politica, da influire sulla situazione parlamentare e valsero qualche volta a segnare le sorti d’un Ministero”. Vero o no, ci piace pensare che fosse davvero così.
La liquidazione
Il banchetto per Giolitti fu l’ultimo atto. Dopo alcuni rapidi cambi di gestione e passi falsi nel 1913 l’albergo venne posto in liquidazione. Qualche anno dopo, durante la Prima Guerra Mondiale, il caseggiato fu requisito dalle autorità militari che vi alloggiarono i soldati per alcuni mesi. Poi l’edificio cambiò destinazione d’uso, diventando sede di vari uffici e di abitazioni private.
L’importanza dell’edificio nella Resistenza
Durante la Resistenza quello che oramai era il “Palazzo Barra di Ferro” ebbe origine il primo nucleo della SAP cuneese (squadre di azione patriottica). I membri delle SAP si occupavano della produzione di materiale di propaganda antifascista, di azioni di spionaggio e sabotaggio ai danni del regime di Benito Mussolini. Ed è proprio dal cortile del palazzo di via Saluzzo che il 27 aprile del 1945 partì l'insurrezione antifascista. Al mattino, i giovani sappisti uscirono dal portone del palazzo armati, fecero insurrezione in via Roma, e diedero battaglia all’invasore tedesco.
Un auspicio realizzato… in parte
Visto che ci siamo ampiamente abbeverati alla fonte delle sue parole, non possiamo far altro che concludere nello stesso modo in cui Camillo Fresia chiuse il capitolo del suo libro dedicato alla Barra di Ferro: “Quanti sono gelosi delle tradizioni locali e sentono il fascino dei ricordi e sanno leggere con godimento nelle vecchie muraglie, vogliono credere intanto che gli attuali e i futuri reggitori del Comune sapranno, alla smania dei mutamenti, resistere meglio di quanto, in casi analoghi, non v’abbiano resistito certi loro predecessori; così che - per dirne una - come si è dato di frego alla tanto significativa denominazione di Contrada dell’Olmo, non si sopprima, almeno, anche questo nome che ben si può dire acquisito alla storia del luogo: vicolo della Barra di Ferro”: Poi nelle note aggiunse: “Prendiamo esempio da Roma, che si guarda bene dal sopprimere tradizionali denominazioni come quelle di via Botteghe Oscure, via del Babbuino, via Due Macelli, via della Scrofa e simili”.
Cuneo non è Roma, ma c’è da dire che Fresia scriveva negli anni ’20 e non poteva immaginare che qualche anno dopo, in quella strada avrebbero vissuto quattro persone che diedero la vita per la liberazione dalla città dalle truppe naziste, di cui in parte abbiamo già detto: si tratta di Dario Azzalin, Francesco Racca, Alberto Cavallera e Andrea Micheletti. Azzalin, responsabile della Sap giovanile, e l’amico sappista Racca vennero colpiti dal proiettile di un mortaio tedesco durante la guerriglia urbana del 28 aprile 1945. Cavallera, in seguito alla liberazione, si arruolò nella polizia del popolo, ma morì il 12 giugno 1945 a Torino per mano dei nazifascisti. Micheletti, il cui nome di battaglia era "Tarzan", era partigiano nella Brigata Val Corsaglia della III Divisione Autonoma Alpi. Venne fucilato nel marzo del ’45 a Roccarosa Sant’Anna, nei pressi di Chiusa Pesio.
L’appello di Fresia è rimasto inascoltato, ma non del tutto. Il 28 agosto 1945 la Giunta municipale di Cuneo deliberò di rinominare il Vicolo della Barra di Ferro “Vicolo Quattro Martiri”, ma nella via, oltre a una lapide che ricorda il sacrificio di chi lottò per la libertà, si trova il cartello donato del Lions Club nel 2002, che indica l’antica denominazione della strada. Se siete arrivati a leggere fin qui, la prossima volta che v’incamminerete per andare a prendere una birra al Lucertolo’s avrete un’occasione in più di ricordare ai vostri amici che talvolta la storia è passata per di qua.