Sono passati cent’anni esatti dal “Natale di sangue” della Fiume dannunziana, l’ultimo atto nell’incredibile avventura della Reggenza italiana del Carnaro incominciata quindici mesi prima, l’11 settembre 1919.
A mettere la parola fine sull’esperienza della città-stato adriatica, animata da reduci, artisti, letterati e rivoluzionari, è il governo di Giovanni Giolitti, deciso a dar seguito al trattato firmato poco più di un mese prima a Rapallo con la neonata Jugoslavia. In base agli accordi diplomatici, Zara e una parte delle isole del Quarnaro vengono assegnate all’Italia in cambio della Dalmazia, mentre Fiume diviene Stato libero. Gli jugoslavi masticano amaro, ma anche i legionari di Gabriele d’Annunzio vedono in questa conclusione un tradimento delle aspirazioni irredentiste che avevano animato l’insurrezione del settembre 1919.
Roma però non può più tollerare che la sua politica verso i Balcani resti condizionata dalle stravaganze e dalle ambizioni del Vate, tanto più che l’accordo italo-jugoslavo viene accolto con favore anche da Benito Mussolini, ben più realista di d’Annunzio e preoccupato dalla crisi in cui il fascismo è sprofondato dopo la disfatta elettorale di un anno prima. Si passa così alle maniere forti: nel pomeriggio del 24 dicembre, scaduto l’ultimatum del generale Caviglia, l’esercito italiano attacca la città ribelle da terra e dal mare. Il Comandante dichiara di essere pronto a farsi ammazzare “con tranquillo disprezzo” ma cambia idea dopo aver constatato che la solidarietà che contava di ricevere dall’Italia è ben poca cosa e che i militari, questa volta, sembrano fare sul serio. Quando un proiettile sparato dalla nave Andrea Doria si schianta sul cornicione della finestra del suo studio, d’Annunzio decide che la misura è colma: la vita, sentenzia, “non vale la pena di gettarla oggi in servigio di un popolo che non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia, mentre il governo fa assassinare con fredda determinazione una gente di sublime virtù”. Il 28 dicembre, d’accordo con i suoi consiglieri locali, annuncia la resa: i legionari lasciano sul campo 22 caduti, tutti di Fiume e della vicina Veglia. Si contano anche cinque vittime civili dei bombardamenti - che proseguiranno fino al giorno 29 - tra cui un ragazzino di 12 anni.
Il realismo dell’uomo di Dronero, arcinemico di d’Annunzio fin dai tempi dello scontro tra interventisti e neutralisti nel “radioso maggio” 1915, ha avuto la meglio. Ma l’eredità politica e intellettuale di quell’esperienza segnerà nel profondo l’Italia del primo dopoguerra. Negli ultimi mesi della Reggenza di Fiume si vara addirittura una costituzione, la Carta del Carnaro, che per la prima volta estende alle donne il suffragio (e il servizio militare, in ruoli non combattenti), introduce il divorzio, assegna ai sindacati un ruolo di direzione nell’attività economica che si rifletterà sull’impianto corporativistico del fascismo. L’ispiratore della Carta è tuttavia un uomo che dal futuro regime si manterrà distante, fino a morire da esule in Francia, ovvero l’ideologo del sindacalismo rivoluzionario Alceste de Ambris. Insieme a lui animano i quindici mesi della “città di vita” altre singolari figure di avventurieri e agitatori: come l’aviatore Guido Keller, fondatore del gruppo artistico-esoterico Yoga e protagonista di un memorabile blitz aereo su Montecitorio dove lanciò in segno di protesta un pitale contenente un mazzo di carote e rape. O l’ardito fiumano Giovanni Host-Venturi, più tardi deputato fascista, che nel secondo dopoguerra emigrerà in Argentina e morirà suicida dopo la scomparsa del figlio, militante peronista vittima del regime dei colonnelli. Anche gli stranieri accorrono alla chiamata di d’Annunzio: il belga Léon Kochnitzky, ebreo convertito, filosovietico e omosessuale dichiarato, diviene il suo “ministro degli esteri”. Sarà lui a farsi promotore della Lega di Fiume, un contraltare ideale della neonata Società delle Nazioni che sostiene i diritti dei popoli oppressi e colonizzati dalle potenze imperialiste, prendendo contatti tra l’altro con lo Sinn Fein irlandese.
I legionari cuneesi e il difficile ritorno a casa
Nell’elenco ufficiale dei legionari di Fiume (riportato sul
sito della Fondazione Vittoriale degli Italiani) figurano trenta volontari ed ex soldati provenienti dalla provincia Granda, i cui nomi riportiamo in calce a questo articolo. A differenza dei personaggi sopra citati di loro non si conosce nulla oltre ai dati anagrafici: è probabile che tutti fossero reduci della Grande Guerra, persone comuni richiamate “alla festa della rivoluzione” (per riprendere il titolo di quello che è forse il più famoso saggio sull’impresa fiumana) per patriottismo e spirito d’avventura. Gli unici riferimenti in rete si colgono in un articolo dello storico
Aldo Mola intitolato
Legionari fiumani: tra D’Annunzio e il fascismo (1919-1925). Qui si fa menzione delle difficoltà cui andranno incontro molti ex legionari citando la lettera inviata da un certo
Giovanni Vaniglia di Torresina, residente a Ceva, alla Federazione Legionari Fiumani di Torino:
“Compagni legionari, Vengo a Voi con queste mie poche righe per farvi sapere che sono ancora legionario fedele come nel Natale 1920. Io dopo che sono venuto da Fiume non o più un giorno tranquillo senza lavoro prego Voi che siete in torino di cercarmi un lavoro da qualunque sia lavoro in fabrica da cameriere. Voi che siete legionari fedeli fatemi una risposta su questo. Un saluto fedele da un legionario che a dato la vita per la causa fiumana”.
Vaniglia, classe 1898, è un ex volontario di appena 24 anni (la sua lettera è datata 21 febbraio 1922) che in italiano incerto si rivolge ai suoi compagni d’arme d’un tempo e in particolare a Giacomo Treves, massone fondatore della loggia Guglielmo Oberdan di Trieste e attivo promotore dell’impresa dannunziana fin da prima della marcia di Ronchi. A lui, nella sua veste di presidente della sezione torinese della Federazione, scrive il 13 luglio anche un altro legionario cuneese: si tratta di Celeste Giovanni Rosso, che si presenta come sergente della Compagnia d’Annunzio (l’unità conosciuta come La Disperata, protagonista della “santa entrata” a Fiume sotto il comando del tenente Elia Rossi Passavanti). Il suo nome non è nell’elenco del Vittoriale ma si sa, da una sua precedente lettera, che si tratta di un “ragazzo del ‘99” e che prima di giungere a Fiume era stato ferito nella battaglia del Solstizio e decorato con la medaglia d’argento. Nella missiva il giovane, orfano di padre e di madre, ringrazia Treves per il suo interessamento nel trovargli un impiego come manovale e gli invia la somma di quattro lire per la tessera sociale e per la medaglia commemorativa della marcia di Ronchi: “E mi a fatto molto piacere nel sapere che lei se ne interessava di me per trovarmi una occupazione la quale mi fa molto piacere. Sei mesi fa avevo fatto domanda alle ferovie dello Stato come guardia di Vigilanza ma non oh mai avuto risposta. E adesso qui a Cuneo non si trova niente del lavoro. Percio spero nella sua gentile persona che mi trovera una occupazione”.
Anche questa toccante testimonianza ricorda, come sottolinea Mola, lo smarrimento dei giovani reduci del dopoguerra: “I meno fortunati furono proprio i giovani “di leva”, delle classi 1900-1901, che a Fiume erano andati sicuri che la “città di vita” avrebbe mutato l’Italia, l’Europa intera e le loro condizioni individuali, ma poi ci vissero male, disgustati da episodi di criminalità e dal palese contrasto tra lo sfarzo di alcuni e le ristrettezze dei più. Tornarono ai luoghi d’origine, dispersi nel vortice di un’Italia alle prese con tensioni sociali, disoccupazione, scioperi, scontri anche sanguinosi fra opposte fazioni”.
L’elenco ufficiale dei legionari fiumani provenienti dalla Granda
Alladio Matteo di Guglielmo, classe 1899, Racconigi, caporale
Arnold Ruggero di Eugenio, classe 1896, Ormea, volontario
Cantamessa Giuseppe di Antonio, classe 1900, San Pietro di Govone, volontario
Ciravegna Marco, Benevagienna, volontario
Colombo Carlo di Giuseppe, classe 1902, Cuneo, marinaio
Comandó Francesco, Cuneo, volontario
Consolo Pietro di Francesco, classe 1887, Cuneo, capo manipolo
Cornaglia Maurizio di Bartolo, Cuneo, caporale maggiore
Dalma Giovanni di Desiderio, classe 1895, Cuneo, indicato come “volontario in Angheben tenente” (sic)
D’Amico Tito di Cesare, classe 1887, Paesana, maresciallo
Daniele Vincenzo di Giobatta, classe 1899, Murello, bersagliere
Del Piero Silvio di Antonio, classe 1900, Alba, volontario
Falconi Giorgio, Cuneo, caporale maggiore
Ferrua o Ferma Costanzo di Michele, classe 1900, Mondovì, caporale
Fiorasi Francesco di Leopoldo, classe 1896, Cuneo, caporale aviatore
Gambaro Giovan Battista di Michele, classe 1898, Cuneo, sergente
Giachino Agostino di Luigi, classe 1898, Alba, volontario
Guerra Agostino o Augusto di Santo, classe 1896, Mondovì o Pesaro (Mercatello), maresciallo aviatore
Leri Fernando, Dronero [erroneamente indicato come “Cronero”, ndr], sergente
Manzoni Luigi, Barolo, volontario
Marsiglio Agostino di Domenico, classe 1897, Priola, volontario
Occhialini Sebastiano, Fossano, partecipò con i granatieri alla Marcia di Ronchi
Odasso Giovanni, San Giacomo di Mondovì [forse San Giacomo di Roburent, ndr], volontario
Peano Giorgio, Saluzzo, volontario
Penna Pietro di Luigi, classe 1899, Cossano Belbo, caporale maggiore - legione fiumana
Piano Mario di Biagio, classe 1902, Cervere, soldato - legione fiumana
Politelli Roberto di Roberto, classe 1895, Cuneo, tenente
Prato Giuseppe di Tommaso, classe 1898, Saluzzo, tenente
Trinchero Pietro di Ernesto, classe 1892, Racconigi, maresciallo
Vaniglia Giovanni, classe 1898, Torresina, volontario