CUNEO - L’insurrezione nel Cuneese: 25 aprile 1945

Nei giorni del crollo del regime di Salò, molto sangue fu versato: duri furono gli scontri e diffuse le violenze. Le colonne germaniche in ritirata lasciarono dietro di sé una lunga scia di dolore

Federico Mellano 25/04/2022 11:10

Pubblicato in origine sul numero del 14 aprile del settimanale Cuneodice: ogni giovedì in edicola
 
Sono passati 77 anni dal 25 aprile 1945, eppure mai come oggi risultano attuali i temi della guerra, della guerra civile e della lotta per la libertà. Partendo dal presupposto che ogni guerra sia una guerra civile, che non esista alcuna giustificazione per spargere sangue e interrompere una vita, è necessario comprendere la ragione di tanti morti che il mondo ancora oggi presenta sul conto. Una grande questione, alla quale è difficile trovare una risposta, riguarda la legittimità o meno di rispondere alla violenza con la violenza, la necessità di difendersi da un’aggressione o dall’oppressione.
 
I giorni della liberazione rappresentarono la fine violenta e drammatica di una dittatura, di una guerra non voluta, di 20 mesi di terrore e guerra civile. La violenza insurrezionale non solo fu molto acuta e si trascinò in numerosi “regolamenti di conti”, a danno, in particolare, di fascisti o presunti tali, ma molte zone della nostra provincia, investite dalla ritirata delle colonne tedesche, furono interessate da stragi e rappresaglie. La provincia di Cuneo, per via della posizione geografica e per la presenza numerosa delle formazioni partigiane, conobbe combattimenti di una certa intensità, ma, nello stesso tempo, la ritirata nazifascista si svolse, nella maggioranza dei casi, in modo ordinato e compatto: l’insistenza di ingenti formazioni tedesche e fasciste e l’importanza secondaria attribuita da parte degli Alleati a questo angolo di Italia, permise ai tedeschi e, in alcuni casi, ad alcuni fascisti di retrocedere agilmente verso la “zona franca” di Strambino, nel Canavese, e lì di consegnarsi agli Americani senza subire ritorsioni.
 
Nello specifico, tra marzo e aprile del 1945, sussistevano, tra le Langhe e il Monregalese, le unità di controguerriglia della Repubblica Sociale, i famigerati “Cacciatori degli Appennini”, comandati dal colonnello Aurelio Languasco. Tali unità erano inquadrate nel comando della 34ª Divisione di Fanteria tedesca, condotta dal generale Lieb. Più ad ovest, a Cuneo città, la presenza dei brigatisti neri della “Lidonnici”, fu ben salda almeno fino al 26 aprile. Proprio nei giorni antecedenti e contemporanei all’insurrezione, alcuni fascisti cuneesi si resero responsabili di crimini piuttosto odiosi. In seguito alla partenza dei principali gerarchi della nostra provincia e all’inizio dei primi scontri per la liberazione, furono passati per le armi, il 25 aprile, alcuni presunti fiancheggiatori dei partigiani, per ordine dei vertici dell’Ufficio Politico Investigativo. Il giorno successivo lo squadrista Attilio Zanaboni, uno degli uomini più crudeli che la Cuneo dell’epoca avesse conosciuto, si rese probabilmente responsabile della fucilazione di sei ebrei stranieri sotto le arcate del Ponte Nuovo. Su questo fatto aleggia ancora oggi un alone di mistero: alcune fonti sostengono che i responsabili della carneficina fossero i tedeschi del servizio di sicurezza SD, comandati dal maresciallo Max. Questi ultimi, altrettanto attivi nella repressione antipartigiana, si resero responsabili, sempre il 26, dell’uccisione di Filippo Ponza di San Martino, ufficiale partigiano. Negli stessi giorni, prima della ritirata, il fascista Bellinetti falciò cinque detenuti fuggitivi dal carcere di Cuneo.
 
Le valli occidentali furono investite, negli stessi giorni, dalla ritirata degli uomini della “Littorio” e della “Monterosa”. I primi, lasciando le valli Gesso e Stura, sostennero scontri con i partigiani a Borgo San Dalmazzo e Caraglio. In quest’ultimo paese, dopo la liberazione, furono brutalmente giustiziati alcuni ex appartenenti alla brigata nera “Resega”, ritenuti responsabili della rappresaglia del 30 dicembre 1944. In valle Varaita e in valle Maira, invece, gli scontri coinvolsero i partigiani, in particolare appartenenti alla 181ª brigata garibaldina “Morbiducci”, e gli alpini del battaglione “Bassano” della divisione Monterosa. Qui ebbero luogo anche delle trattative tra il maggiore Molinari, comandante del battaglione e i capi partigiani. Tali accordi, conseguiti il 24 aprile, regolarono le eventuali condizioni di resa da parte dei fascisti, che, ovviamente, non riguardavano coloro che erano considerati criminali di guerra. Era palese che tra questi “ricercati” figurassero gli uomini di Adriano Adami, il “Pavan”, responsabili delle operazioni di controbanda. Difatti il 26 aprile, mentre gli uomini del “Bassano” si arrendevano ai partigiani, Adami, con un gruppo di otto persone, decise di portarsi dalla valle Varaita alla valle Pellice, per unirsi a reparti della Xª Mas. Il 28 aprile la comitiva fu accerchiata e catturata. Dopo essere stati esposti al ludibrio della popolazione, il 1° maggio Adami e quattro dei suoi uomini furono condannati a morte da un tribunale partigiano e fucilati alla caserma Musso di Saluzzo.
 
In merito alle zone di pianura, la ritirata delle truppe tedesche appartenenti alla 34ª divisione, alle quali si unirono numerosi fascisti della Brigata nera “Lidonnici”, della divisione “San Marco” e dei “Cacciatori degli Appennini”, interessò il Monregalese, il Fossanese e il Saviglianese. Tali aree furono funestate da una lunga “scia di sangue”. I tedeschi infatti, ancora determinati e non disposti a farsi catturare dai partigiani, risposero con eccezionale durezza ogni qualvolta furono attaccati. Il 26 aprile furono uccise oltre 20 persone a Narzole e il 29 aprile si consumò a Genola un ultimo tremendo eccidio. In seguito all’uccisione di un soldato tedesco, 11 persone furono rinchiuse in un cascinale e arse vive dal fuoco dei lanciafiamme. Basti pensare che solo divisioni tedesche in ritirata, in Piemonte, provocarono più di 300 vittime. Una tale violenza era dovuta all’incapacità da parte dei nazisti di accettare la sconfitta, e l’intolleranza nei confronti dei partigiani, considerati dei tedeschi non come soldati ma come banditi. È doveroso poi sottolineare il clima da resa dei conti successivo alla liberazione.
 
Secondo lo storico Giampaolo Pansa, furono oltre 400 i fascisti o presunti tali giustiziati in seguito all’insurrezione, nella nostra provincia. Al di là della correttezza storica del numero dei morti, è interessante valutare le dinamiche di quei giorni. I repubblicani non solo furono ritenuti responsabili della distruzione materiale e morale del Paese, ma vennero visti come un corpo estraneo all’interno della comunità, stranieri in patria. Sapendo di essere odiati e disprezzati, i fascisti si resero responsabili dei crimini più atroci, contribuirono a spaccare in modo irrimediabile un paese, considerando il nemico partigiano come un traditore da abbattere senza pietà. Tale atteggiamento, ovviamente, nel momento della sconfitta, decretò la condanna a morte per molti repubblichini catturati. Di più, se consideriamo il momento dell’insurrezione, come una catarsi in seguito ad oltre vent’anni dittatura, la morte dei fascisti non rappresentava che un sacrificio atto a purificare la società da quel male che l’aveva macchiata per tutto quel tempo. Il Giorno della Liberazione, da questo punto di vista, può presentare uno spunto di riflessione sulla drammaticità delle guerre civili e sulla pericolosità dell’ideologia totalitaria. Quest’ultima non solo portò ad una profonda spaccatura della società, ma creò le condizioni di una lacerante guerra intestina, combattuta parallelamente a quella di liberazione contro l’occupante. Le guerre civili non terminano mai con il cessare delle ostilità, ma generano rancori e odi che possono durare nel tempo. È sufficiente voltarsi verso est per capirlo.

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