“Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili”: ottant’anni fa, dal balcone di piazza Venezia, Benito Mussolini annunciava a una folla insolitamente silenziosa nel crepuscolo romano l’entrata in guerra dell’Italia contro la Francia e la Gran Bretagna.
È forse il più celebre e il più citato tra i discorsi del duce, quello con cui l’ex socialista interventista chiama alla “lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra”, alla “lotta tra due secoli e due idee”, concludendo con il celebre appello: “Popolo italiano! Corri alle armi”. Questo è anche il titolo del libro che Dario Gariglio ha dedicato alla breve guerra combattuta fra Italia e Francia dal 10 al 25 giugno 1940. Se quella tra il Reich tedesco e il governo di Parigi aveva preso il soprannome di drôle de guerre (strana guerra) prima del Blitzkrieg risolutivo del maggio-aprile 1940, quello sulle Alpi sudoccidentali è un conflitto ancor più strano.
Lo è innanzitutto perché l’Italia ci arriva controvoglia e senza sufficiente preparazione, dopo aver nicchiato per mesi con il sempre più impaziente alleato germanico. Per entrambi gli eserciti, quello italiano con la Prima e la Quarta Armata sotto il comando di Rodolfo Graziani e quello francese con l’Armée des Alpes, l’ordine è di evitare qualsiasi azione offensiva e di non valicare la frontiera.
Tra il monte Bianco e Ventimiglia il Gruppo di Armate Ovest schiera 299mila soldati e sottoufficiali contro i 176mila effettivi francesi, appena 83mila dei quali costituiscono le truppe combattenti di prima linea. Sono questi ultimi a preoccuparsi di interrompere subito tutti i ponti e le strade d’accesso all’Italia, minando anche l’imbocco del tunnel del Frejus e i viadotti della ferrovia Cuneo-Ventimiglia-Nizza. Le conseguenze sulla popolazione alpina sono subito terribili, anche perché le valli non vengono evacuate per tempo: “È il quadro classico dell’esodo - scriverà il colonnello Vergézac, testimone degli eventi - donne terrorizzate che tengono in braccio i bambini inebetiti dal sonno e dalla paura, i vecchi che si cerca di evacuare con ogni mezzo; fagotti pesanti, bestiame spaventato: tutti i particolari del quadro”.
Sul versante italiano vengono risparmiate ai civili le distruzioni, ma non l’amarezza dello sfollamento. In alta valle Varaita, ad esempio, i paesi della vallata di Bellino e i comuni di Pontechianale e Casteldelfino vengono evacuati: gli abitanti, trasferiti nell’Astigiano, sono costretti a vendere il bestiame a un quarto del loro valore agli allevatori di Sampeyre e della bassa valle, ma otterranno di riaverli al prezzo di svendita al loro ritorno. Più fortunati gli sfollati dell’alta valle Stura, fino a Vinadio compreso, che possono sistemare le bestie negli alpeggi del vallone di Marmora o ospitarle presso gli allevatori della bassa valle.
A innescare le ostilità tra due avversari che non hanno alcuna voglia di farsi male è un bombardamento inglese compiuto nella notte tra l’11 e il 12 giugno su Torino. Alle 00,18 una decina di velivoli decollati da un aeroporto vicino a Londra attraversano il territorio francese e sganciano ordigni sugli stabilimenti industriali della Fiat: l’incursione, proseguita poi sull’Ansaldo di Genova, ha effetti irrilevanti dal punto di vista militare ma provoca 14 vittime e 30 feriti tra la popolazione civile. Sono solo i primi, purtroppo. Colpito nell’orgoglio da un’azione che ha messo in luce tutta l’inadeguatezza della contraerea italiana, Mussolini ordina il giorno dopo un pesante bombardamento sulla base navale di Tolone. Ma il duce ora esige anche un’offensiva sulle Alpi e il giorno 15 convoca il capo di stato maggiore Pietro Badoglio per imporla, sebbene il maresciallo cerchi in ogni modo di farlo ricredere.
Al fronte, intanto, si comincia a morire. Il primo caduto dell’Armée des Alpes è lo chasseur Jean Rigot, ucciso il 14 giugno al mont Capelet Supérieur nel corso di un breve ma violento scontro con gli alpini del battaglione Ceva. Il giorno prima era morto nei pressi del colle della Maddalena il sottotenente Beppino Nasetta, inquadrato come volontario nei Nuclei Armati Supplementari (NAS) della Guardia di Frontiera: la vicenda del primo militare italiano caduto della seconda guerra mondiale è ricordata da Giovanni Cerutti nel suo La storia nella toponomastica di Cuneo. Nasetta, nato a Roata Lerda (ora Madonna delle Grazie) nel 1916 e trasferitosi in Cuneo vecchia in tenera età, era stato un membro dell’Azione Cattolica e dell’associazione giovanile San Carlo. Da fervente cattolico sarà l’unico a prendere la parola per controbattere nel corso di una turbolenta riunione del febbraio 1939 al teatro Littorio (l’attuale Monviso), indetta dal federale fascista Antonio Bonino per denunciare l’attività dei giovani dell’AC e dello stesso vescovo di Cuneo. Per tutta risposta Bonino decreta la sua espulsione dal Pnf il giorno dopo per “assoluta assenza di fede fascista”. Questo spiega il successivo imbarazzo del regime nel celebrarne la morte, che pure aveva suscitato grande emozione in città anche per l’eroismo dimostrato: nel primo mattino del 13 giugno, avvertito dell’incursione di una quarantina di soldati francesi su una cima presidiata da cinque uomini di un NAS, il sottotenente aveva raggiunto un mitragliatore aprendo il fuoco sugli assalitori fino a venire colpito dal fuoco nemico. Per lui il comando militare chiede il riconoscimento della medaglia d’oro al valore, ma le autorità - memori del suo passato - gli concedono solo quella d’argento: la notizia della sua morte verrà riportata dal giornale fascista cuneese La Sentinella d’Italia soltanto il 30 luglio successivo.
Il mattino del 20 giugno Mussolini ordina l’offensiva generale sull’intero arco alpino: già da sette giorni sulla tour Eiffel sventola la bandiera con la svastica e il tracollo del nemico è imminente. La Wehrmacht è arrivata fino a Lione e il duce vuole evitare a ogni costo lo smacco di vederla avanzare fino al Mediterraneo: “Non voglio subire l’onta che i tedeschi occupino e ci consegnino poi il Nizzardo!” dice a un rassegnato Badoglio. Ma i francesi sono determinati a opporsi con tutti i mezzi all’avanzata e lo fanno perlopiù con successo, inchiodando gli italiani lungo la ben presidiata Maginot alpina. Se per secoli erano stati i piemontesi - e le genti di Cuneo più di tutti - a dar prova di coraggio e determinazione nel difendere la propria terra, ora le parti sono invertite: tra gli atti di eroismo di quel breve scontro si segnala l’ostinata difesa del forte della Redoute Ruinée, presso il colle delle Traversette. Qui una sparuta guarnigione di 47 riservisti al comando del tenente Dessertaux riuscirà a resistere a ogni attacco fino all’armistizio. Solo il 2 luglio gli chasseurs francesi ammainano la bandiera e sfilano di fronte al nemico che rende l’onore delle armi: cinque anni più tardi Dessertaux avrà il compito di riportare la stessa bandiera al forte.
Più a sud il 2° Corpo della Prima Armata, di cui fanno parte la
divisione alpina Cuneense e il 2° raggruppamento Alpini, dà vita all’’operazione M’, ovvero Maddalena, con il compito di fiancheggiare l’asse principale dell’offensiva. Sui passi dell’Ubaye viene però bloccato da forti nevicate, tanto che gli alpini del battaglione Saluzzo sono costretti a valicare il colle dell’Autaret accollandosi i carichi dei muli: sembra una sinistra anticipazione di ciò che la ‘divisione martire’ dovrà patire nella
campagna di Russia. Fino all’armistizio, decretato per le ore 00,35 del 25 giugno, le artiglierie francesi possono così agire indisturbate anche in valle Stura, dove proprio la notte prima della cessazione delle ostilità il fuoco delle batterie colpisce il comando di Corpo d’Armata a Bersezio. Il bilancio è di undici soldati uccisi e numerosi feriti sulla strada per il colle della Maddalena: saranno le ultime vittime di quella strana guerra.