Gli anni passano e il tempo dei testimoni lentamente si spegne. Sempre più persone camminano sotto gli imponenti portici di piazza Galimberti, dando sempre più per scontato un passato ritenuto lontano. Eppure, una ventina di anni fa oramai, passeggiavo da bambino sotto la casa natale di Duccio e, con curiosità, chiesi a mia madre chi fosse e come mai tutti parlassero di lui. Da lì la lenta maturazione della passione per la storia. Una storia fatta di tante storie, quelle apprese dai nonni, quelle lette per le strade, ascoltate, vissute. Una storia in cui noi ci fondiamo e partecipiamo: “La storia siamo noi, nessuno si senta offeso - Siamo noi questo prato di aghi sotto al cielo […] La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare”, cantava Francesco De Gregori nel 1985.
Ebbene sì, la storia siamo noi, volenti o nolenti, che partecipiamo, esistiamo, viviamo. Che passiamo per le vie cercando un ricordo familiare, un modello da ammirare, trovando uno spazio di compromesso tra il nostro essere e il mondo. E tra i tanti esempi del passato traiamo insegnamenti per l’oggi.
Uno di questi è stato senza dubbio quello lasciato da Duccio Galimberti. Al di là della lotta partigiana, che condusse fino alla sua morte, avvenuta per mano dei fascisti cuneesi nel dicembre del 1944, a lui va riconosciuta una lungimiranza che pochi ebbero. Galimberti la dimostrò il 26 luglio del 1943. Ma prima dobbiamo fare un passo indietro per ricostruire il clima di quel periodo. Il 1943 è stato un anno focale nella storia del secondo conflitto mondiale: con la sconfitta di Stalingrado, il ritiro definitivo delle truppe dell’Asse dall’Africa del nord, il tramonto della Germania nazista sembrava definitivo. L’Italia, umiliata dalle sconfitte militari, attanagliata dalla fame e devastata dai bombardamenti aerei, non era più in grado di proseguire un conflitto costellato da disfatte e costato centinaia di migliaia di morti. Nel marzo del 1943 il malcontento nei confronti del fascismo culminò con i primi scioperi generali dall’inizio del regime. Iniziati a Torino, si propagarono nel “triangolo industriale” e coinvolsero circa cento mila operai. Il 10 luglio del 1943 gli Alleati diedero vita all’operazione Husky, l’invasione della Sicilia. Sia da parte del re, che dei vertici delle forze armate e perfino dei fedeli di Mussolini maturava sempre di più la convinzione di abbandonare il duce e di uscire al più presto dal conflitto.
In realtà, anche da parte di Mussolini stesso, pare che ci fosse una vaga volontà di stabilire contatti con gli Alleati, al fine di valutare una possibile uscita unilaterale dalla guerra, espressa durante un colloquio con il gerarca Giuseppe Bastianini. Tuttavia, l’inerzia di Mussolini, di fronte al precipitare degli eventi, convinse molti degli stessi fascisti a trovare una soluzione che alla fine venne da Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni. L’obiettivo era quello di esautorare il duce e conferire al re l’incarico di formare un nuovo governo. I tedeschi, con i loro potenti servizi di sicurezza delle SS, fiutarono immediatamente i piani di deposizione di Mussolini e Hitler stesso chiese al dittatore un incontro faccia a faccia, che si tenne il 19 luglio a San Fermo, frazione di Belluno. Era evidente che i tedeschi avessero perso fiducia nei confronti degli italiani e propendessero verso una vera e propria occupazione militare della parte centro settentrionale del Paese. Hitler chiedeva a Mussolini misure draconiane nei confronti degli italiani, ritenuti fiacchi e inaffidabili.
Nel frattempo i “congiurati” passarono all’azione. Grandi e Luigi Federzoni sondarono quanti tra i membri del Gran Consiglio avrebbero votato l’ordine del giorno. Il 21 Mussolini ordinò a Carlo Scorza di convocare la seduta del gran consiglio la sera del 24 luglio. Alle 17 del 24 i 28 membri dell’assemblea si riunirono nella “Stanza del pappagallo” di Palazzo Venezia. Grandi illustrò il documento, con il quale si esprimeva la necessità di “immediato ripristino di tutte le funzioni statali” e l’invito al re di “assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell’aria”. In sostanza la fine del potere di Mussolini. 19 votarono a favore, otto contro, uno si astenne e alle 2.40 del 25 luglio si sciolse la seduta. Il pomeriggio successivo Mussolini fu arrestato a Villa Ada, dopo essere stato ricevuto dal re e aver avuto la notizia di essere stato sostituito con Pietro Badoglio. La notizia fu diffusa solo alle 22.45 dalla radio che, interrompendo le trasmissioni, diede un comunicato: “Sua maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di stato di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato capo del Governo, primo ministro, segretario di Stato, sua eccellenza il cavaliere, maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio”. Veniva comunque ribadita la continuazione della guerra a fianco della Germania.
Il giorno successivo l’Italia si svegliò con un vento diverso e anche a Cuneo la gente nelle piazze chiedeva più risposte e rassicurazioni per il futuro. Ma poche erano le certezze e ci si domandava quali strade avrebbe preso il paese. Tanti speravano nella fine del conflitto e nel raggiungimento della pace, ma ben pochi capirono che il peggio doveva ancora arrivare. Galimberti si affacciò dai balconi del suo terrazzo sull’allora piazza Vittorio Emanuele II e pronunciò un emozionante discorso alla folla. Dopo avere espresso severi giudizi nei confronti del fascismo, responsabile di “una guerra assurda”, definendolo “una dittatura che ha distrutto non solo la vita pubblica della nostra patria, ma anche la sua dignità e il suo onore”, Galimberti lanciò un messaggio a dir poco visionario. Per l’avvocato cuneese la guerra sarebbe continuata “fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannia mussoliniana”. Nello stesso tempo Galimberti preannunciò il carattere peculiare, ma, nello stesso tempo, drammatico del nuovo conflitto: “I patrioti saranno costretti a prendere le armi non solo contro i tedeschi, ma anche contro i fascisti. Sarà una pena atroce combattere contro degli italiani, ma inevitabile”.
Per l’avvocato sarebbe stata “una guerra popolare e nazionale; dunque, combattuta volontariamente dal popolo preparato e guidato da chi è consapevole della gravità del momento storico”. Galimberti inserì la guerra contro il fascismo e l’occupante tedesco nella vulgata del Risorgimento: il germanico veniva così visto come il nemico “naturale” della storia d’Italia. È evidente quindi che l’alleanza con i nazisti non solo aveva reso il fascismo complice dei crimini commessi in Europa, ma si trattava di un patto anomalo agli occhi della storia. Al di là di questa visione finalistica, figlia del suo tempo, l’avvocato e futuro comandante partigiano espresse efficacemente il carattere di “unicum” del nuovo conflitto. Non sarebbe stata solo una lotta contro l’occupante, ma anche una guerra civile contro altri italiani. Galimberti era infatti consapevole che vent’anni di dittatura e tre di guerra mondiale avrebbero lasciato strascichi irreversibili nella società e divisioni insanabili. Il carattere ideologico del conflitto lo avrebbe reso endemico nella società, distinguendolo dai precedenti. Il fascismo era quindi visto come causa di una nuova ondata di violenze che avrebbe sconvolto da lì a poco tutta l’Italia occupata dall’esercito tedesco.
Con il suo discorso, Galimberti si inimicò gli squadristi cuneesi, che lo avrebbero odiato più degli stessi tedeschi. Non sappiamo se, pronunciando le parole dal suo balcone, Galimberti fosse consapevole di avere segnato il proprio destino, né se il peso delle sue parole avesse decretato una condanna a morte. Sta di fatto che gli agenti dell’Ufficio politico investigativo di Cuneo, quando seppero della cattura di Galimberti a Torino, alla fine di novembre 1944, lo prelevarono e lo torturarono a morte nonostante il parere contrario dei nazisti.
La portata della figura di Duccio rimase comunque impressa nei cuneesi e piazza Vittorio Emanuele II fu intitolata a lui il 21 maggio 1945. Di fronte a Casa Galimberti, la statua pensierosa di Giuseppe Barbaroux guarda verso via Roma. Anche lui morto prematuramente, suicida, l’11 maggio 1843, cento anni prima che Galimberti parlasse alla folla dal balcone. E dieci anni prima, il 25 agosto 1933, Mussolini aveva tenuto un discorso da uno dei balconi della stessa piazza. La statua di Barbaroux, silente, ha assistito a entrambi.