Per chi ricorda ‘Il marchese del Grillo’, uno dei capisaldi della comicità italiana e del cinema di Alberto Sordi, il Papa Pio VII ha il volto e la bonomia dell’attore Paolo Stoppa. Nel film di Monicelli è lui a impersonare il pontefice romano, vittima - ma anche divertito spettatore - delle burle dell’istrionico marchese.
Non è dato sapere se il Pio VII storico, al secolo Barnaba Chiaramonti da Cesena, abbia avuto in vita altrettanto senso dell’umorismo. Di certo ebbe a governare le sorti della Chiesa in un periodo più che mai travagliato per la fede cristiana, e pagò la sua pur cauta opposizione agli ideali rivoluzionari e all’assolutismo di Napoleone con 1781 giorni di prigionia, tra l’8 luglio 1809 e il 24 maggio 1814.
Asceso al soglio nel 1800 dopo un conclave lunghissimo, che sarà l’ultimo a svolgersi lontano da Roma, l’ex vescovo di Imola raccoglie la pesante eredità di Pio VI, deportato in Francia e morto dopo un anno e mezzo di cattività. Il suo successore fa ciò che può per salvare il vacillante trono papale, firmando un concordato con Napoleone nel 1801 e arrivando tre anni dopo a presenziare all’incoronazione dell’imperatore a Notre Dame: qui, com’è noto, Bonaparte gli strappa la corona dalle mani e se la pone sul capo da solo. Per sommo sgarbo, il pontefice viene trattenuto a Parigi altri cinque mesi, in una sorta di ‘ospitalità’ forzata, prima che gli venga accordato il permesso di tornare a Roma. È solo il prologo di ciò che lo aspetta. La resa dei conti giungerà cinque anni più tardi. Dopo aver proclamato l’annessione di Roma nel maggio 1809, alle 2,30 della notte del 6 luglio i francesi agli ordini del generale Radet irrompono nei palazzi vaticani per trarre in arresto il vicario di Cristo. Il pretesto formale è il rifiuto di chiudere agli inglesi il porto a Civitavecchia, ma in realtà gli si vuol far pagare la scomunica emessa contro gli invasori: “Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo” risponde all’ufficiale che gli intima la cessione dei residui territori dello Stato pontificio.
L’intenzione è quella di deportarlo in Francia, ma Napoleone ci ripensa: tra i sovrani europei provocherebbe troppo scandalo. A metà strada, la carrozza del Papa cambia itinerario. Da Grenoble si punta su Savona, scegliendo però la strada dei monti perché si teme perfino che i carcerieri del pontefice possano venire aggrediti dalle folle dei paesi attraversati. Ciò che invece non si riesce a evitare è che gli abitanti delle valli tributino un’accoglienza affettuosa al prigioniero: succede già a Limone, dove il convoglio arriva il 12 agosto dopo aver attraversato il colle di Tenda. Anche a Vernante, a Robilante e a Roccavione folle di devoti si radunano ad attendere il corteo. A Borgo San Dalmazzo servono le astuzie e le minacce dei filofrancesi locali per distogliere la popolazione dal fare altrettanto. In serata Pio VII giunge infine a Cuneo, preceduto dal suono festoso delle campane a San Rocco Castagnaretta.
I fedeli lo attendono trepidanti nella chiesa di santa Maria del Bosco, il futuro
duomo di Cuneo. Tuttavia, com’era già accaduto nella prima sosta per il pranzo a Limone, le autorità secolari vietano a Pio VII di salutare i popolani. In compenso gli assicurano un’accoglienza fastosa a
palazzo Lovera, dimora del marchese Filippo Lovera di Maria che dal 1807 esercita l’incarico di
maire, cioè capo dell’amministrazione comunale: sono passati quasi 294 anni esatti da quando nel Ferragosto 1515 toccò a un suo antenato l’onore di ricevere un altro illustrissimo ospite, il re di Francia Francesco I, di passaggio a Cuneo pochi giorni dopo il
breve assedio che la città aveva sostenuto contro i mercenari svizzeri del cardinale Schiner.
Il pontefice segregato vi giunge con ben altro spirito rispetto al sovrano vittorioso, ma perlomeno può ristorarsi con la cena offerta in suo onore dai Lovera. Di sfamare i gendarmi al suo seguito si occupa invece il vicino albergo della Barra di Ferro, situato nell’omonimo palazzo in via Saluzzo. Il conto presentato alla prefettura tramite il maire Lovera sarà così esorbitante da suscitare le proteste del prefetto Pietro Arborio. Il mattino del 13, dopo aver celebrato la messa, Pio VII impartisce la benedizione apostolica dal balcone di palazzo Lovera, ricevendo poi alcuni canonici della collegiata di Santa Maria del Bosco e i personaggi di riguardo. Su indicazione del prefetto, la comitiva si dirigerà a palazzo Valle di Clavesana per permettere al Papa di visitare il conte Bruno di Tornaforte che giace ammalato. Da lì il viaggio riprende senza soste fino a Mondovì e poi a Savona, dove dal 17 agosto successivo fino al 9 giugno 1812 Pio VII resta in cattività nel palazzo vescovile, scontando poi altri due anni a Fontainebleau prima di ritrovare finalmente la libertà.
Pensare che gli iniziali tentennamenti di Barnaba Chiaramonti, paragonati all’atteggiamento del suo predecessore, erano valsi gli strali di Pasquino, la ‘statua parlante’ romana: “Un Pio perdé la sede, per conservar la fede. Un Pio perde la fede, per conservar la sede”. Parole ingenerose, alla luce dei successivi patimenti di un capo della Chiesa poco carismatico ma pronto a difendere l’onore della sua carica.
A Pio VII la città di Cuneo deve comunque la sospirata elevazione a sede vescovile, che invano il Consiglio comunale aveva sollecitato nei decenni precedenti. Se ne parla per la prima volta nella bolla ‘Gravissimus causis’ del 1803, frutto del concordato di due anni prima tra la Santa Sede e Napoleone, ma le proteste della più antica diocesi di Mondovì presso i francesi bloccano tutto: “Dove trovare alloggio per tante famiglie (dei canonici e dei cappellani addetti al coro) - scrivono i monregalesi - in una città così piccola che non è neppure sufficiente a contenere i suoi abitanti, al punto che molti di essi alloggiano nelle cantine?”.
Nel 1814, con il ritorno sul trono del sovrano ‘legittimo’ Vittorio Emanuele I, si ripropone la questione. Una petizione rivolta al re ricorda come a parte Cuneo “non esiste città capoluogo di Provincia che non abbia nel suo recinto una sede vescovile”. A perorare la causa concorre “il meglio giurisprudente” del Piemonte, il conte Giuseppe Barbaroux, nominato nel dicembre 1815 ambasciatore del Regno di Sardegna presso la Santa Sede. Finalmente, il 17 luglio 1817 arriverà la definitiva bolla ‘Beati Petri Apostolorum principis’ in cui si ridefiniscono le circoscrizioni ecclesiastiche del Piemonte e si costituisce la nuova diocesi di Cuneo. Per alloggiare il vescovo, il cuneese Amedeo Bruno di Samone, il Consiglio comunale chiede e ottiene dal re la disponibilità del palazzo Tornaforte in via Roma, già sede della Prefettura al tempo del governo francese: quasi un curioso contrappasso della Chiesa nei confronti di un ‘cesare’ che l’aveva tanto oppressa.