Se gli schiamazzi nelle vie dell’attuale movida di Cuneo vecchia possono risultare intollerabili ad alcuni residenti, sarà forse consolatorio apprendere che assai più tormentato doveva essere il riposo di chi vi abitava un secolo fa. Non ci credete? Allora leggete: “Via Fossano, via Dronero, via Busca erano i teatri delle zuffe tra prostitute per contendersi i clienti, di fughe, di inseguimenti e in generale di «scene degne di un cinematografo ma punto edificante». Ogni tanto uno sparo squarciava il già precario silenzio notturno. Via Santa Croce risultava una delle più battagliate e i cronisti della «Sentinella delle Alpi» sembrava provassero un piacere infinito a darne conto, in una mescolanza di gusto malcelato per le faccende scabrose e desiderio di usarle per accendere i lettori e punzecchiare gli amministratori della città”.
L’anno è il 1915, la citazione invece arriva da un libro del 2018 scritto da Alessandra Demichelis e intitolato La Casa da thè (Primalpe). La “casa da thè” in questione, virgolettata fin dal titolo, altro non è che un garbato eufemismo per definire un bordello. La storia raccontata nel volume è infatti quella della casa chiusa di Cuneo. O meglio, della nuova casa chiusa di Cuneo, che poi sarà anche l’ultima a chiudere i battenti all’indomani dell’entrata in vigore della legge Merlin. È noto infatti che in città esistesse fin dal 1851 un “istituto di giovani allegre” - la definizione si deve agli antichi colleghi della Sentinella delle Alpi - situato in via Molini 4, sui baluardi di Stura. L’edificio era di proprietà di un certo Chiri di Robilante, perciò rimase noto come casa Chiri fino alla chiusura, avvenuta il 27 giugno 1904 “per spontanea cessazione dell’esercente Castagneris Teresa”.
Una nuova casa chiusa? Certo, ma non nella mia via
Cuneo aveva censito 26.879 residenti nel 1901 e si ritrovava ora, dopo oltre mezzo secolo, senza un luogo deputato all’esercizio legale della prostituzione. Un bel problema, specie in una città che era sì devota ai precetti della Santa Chiesa ma anche piena di caserme e militari, per tacere dei frequentatori di mercati e osterie in arrivo dai paesi limitrofi e - perché no - di un bel numero di stimati cittadini non meno interessati a quel genere di servizi. Escludendo una minoranza di persone - illuminate o bigotte che le si vogliano - contrarie al meretricio in quanto tale, tutti concordavano sul fatto che il posto lasciato dalla vetusta e compianta istituzione di casa Chiri andasse in qualche modo occupato da un altro bordello. A patto, beninteso, di non ritrovarselo sotto casa propria. All’epoca nessuno utilizzava l’acronimo a noi familiare “nimby” (“not in my backyard”, ovvero “non nel mio cortile”), ma la questione era proprio quella. E rimase insuperabile per la bellezza di undici anni, fino appunto al 1915. Il libro di Demichelis ripercorre, cronaca dopo cronaca, le peripezie che gli aspiranti tenutari dovettero affrontare prima che l’astuzia di un imprenditore del sesso avesse la meglio sui tentennamenti di burocrati e amministratori.
La prima a provarci era stata tale
Caterina Dogliotti, chivassese, ex donna di servizio di casa Chiri. Nell’agosto 1904, due mesi dopo la chiusura del vecchio bordello, aveva individuato un altro edificio sui baluardi di Stura (casa Aime) e si era rivolta al prefetto per avviare la procedura. L’iter si era scontrato con un ostacolo insormontabile: la prossimità con l’Ospizio dei Cronici, che aveva acquisito il palazzo dell’ex casa chiusa proprio allo scopo di liberarsi da
“una immorale vicinanza”. Non migliore fortuna incontrò Giuseppe Masserano nel proporre come sede della casa di piacere un caseggiato in via Alba: in quel caso, ad essere “minacciati” non erano i poveri vecchi ma gli imberbi studenti del Regio Istituto Tecnico e gli ospiti del Convitto Maschile. Terza istanza fu avanzata negli stessi mesi dal più caparbio
Giovanni Raineri, saluzzese. Tenutario di casini in varie città, Raineri individuò nell’ordine un indirizzo sull’ancora periferica Strada Antica di Nizza (si tratta di casa Fenoglio, prima sede della Camera del Lavoro), poi casa Tomatis in via Alba 11: entrambi i progetti sfumarono di fronte alla ferma opposizione dei residenti, sebbene il secondo insistesse su una via già malfamata e avesse anche ottenuto il voto favorevole della giunta. Non se ne fece nulla nemmeno negli anni successivi, perché tutte le successive istanze presentate da Raineri, dalla rediviva Dogliotti e da altri aspiranti lenoni tra cui una ex
maîtresse di Venaria - la quale chiese nel 1913 di poter aprire la sua
“bella casa da Thé” - naufragarono senza speranza, ognuna per una ragione diversa. L’ipotesi di riaprire la casa di tolleranza in via Fossano, per esempio, venne affossata dalla prossimità con il blasonato Albergo della Barra di Ferro,
la cui lunga storia vi abbiamo già raccontato.
Prima della Merlin: l’ultimo casino di Cuneo
Alla fine fu proprio Raineri a spuntarla, con una soluzione conforme all’adagio di Prezzolini per cui “in Italia nulla è più definitivo del provvisorio”. L’ostinato ruffiano infatti riuscì infatti a ottenere nel corso del 1915 la licenza per aprire una birreria in casa Giraudo, un immobile affacciato sul civico 10 di via Mondovì e con un secondo accesso da via Chiusa Pesio 5 bis. Le autorità sapevano bene che Raineri proponeva ben altri commerci, ma stavolta rimasero sorde alle rimostranze dei vicini, perfino quando una petizione con uno sterminato elenco di firme approdò al ministero dell’Interno. A riprova di quanta parte giocassero in tutto questo gli interessi di bottega di ciascun protagonista, si consideri che tra i più strenui oppositori del nuovo casino figurava il deputato liberale Marco Cassin, che pure pochi mesi prima, in veste di prosindaco, aveva avallato e difeso l’installazione della “casa da thè” in via Santa Croce (poi mai realizzata). Il motivo? La scandalosa vicinanza tra la “birreria” di Raineri e la sinagoga ebraica di contrada Mondovì, di cui Cassin era frequentatore data la sua fede religiosa.
Beninteso, la soluzione adottata non scontentava solo i devoti israeliti ma anche i bravi cattolici, indignati all’idea di ritrovarsi le donnine a due passi dalla chiesa di San Sebastiano e dal convitto salesiano di via Cacciatori delle Alpi (l’attuale Ipsia). Eppure il resto della città si era ormai rassegnato all’idea che quel “ghetto” incuneato nell’antico ghetto fosse l’unico argine all’esplosione di postriboli illegali registrata nel decennio precedente. La densità di osterie, trattorie e mescite malfamate era impressionante: “In via Busca la Trattoria Narzolese, così come la Trattoria Rodi di via Santa Croce erano locali dove una signorina di buona famiglia non avrebbe osato mettere nemmeno un piede” citiamo ancora dal libro di Demichelis. Nelle stesse strade esercitavano, facendo la spola tra l’alcova e le celle del carcere di via Leutrum, le arcinote “Pinota del Sol”, “Salusse”, “Gina”, “Maria Fragola” e una schiera di giovanissime venute dalla campagna. A muoverle una disperazione dettata dalla povertà e dall’isolamento, non diversa da quanto oggi sperimentano tante ragazze di origini molto più lontane. Le cronache del tempo parlano con cadenza quotidiana di arresti per flagrante adescamento in via Roma e in piazza Vittorio, anche dopo l’apertura del casino “ufficiale”. Tra le storie più tristi quella di “una ragazza alta, bionda, con gli occhi smarriti, bellezza anzitempo smarrita” di cui parla in forma anonima un articolo della Sentinella, risalente al settembre 1915. Ancora adolescente era stata mandata dalla famiglia a servire nelle “immonde cantine” della vecchia Cuneo, salvo finire violentata e venduta perfino dal fidanzato, figlio del padrone di una trattoria in via Savigliano. Di lei le cronache si sarebbero occupate anche per i ripetuti tentativi di suicidarsi nello Stura.
Non abbiamo purtroppo testimonianze dirette su quale esistenza conducessero le prostitute assoldate nella casa di tolleranza. Antonio Sartoris ha provato a immaginarlo in un racconto intitolato Via Chiusa Pesio n. 7, dove realtà e fantasia si mescolano intrecciando le poche informazioni disponibili alle riflessioni che la ex tenutaria Nell Kimball affidò alle sue Memorie di una maîtresse americana, edito in Italia da Adelphi. Sappiamo che nel 1942 a casa Giraudo esercitavano dieci donne e che il bordello era diviso in due “sezioni”, una per i meno abbienti e la soldataglia con accesso su via Chiusa Pesio 7 e l’altra affacciata su via Alba e riservata a signori e ufficiali: nel 1950 fu predisposto un ulteriore passaggio dai portici di contrada Mondovì, che immetteva con discrezione sulle scale della casa. L’esercizio fu requisito nel 1944 dalle autorità germaniche, insieme ai casini di Savigliano e Mondovì, affinché nei giorni di mercoledì e sabato dalle ore 15 alle 18 rimanesse ad uso esclusivo delle forze armate tedesche. In quel periodo i clienti pagavano una tariffa a tempo di 5 lire per dieci minuti e le ragazze si alternavano ogni due settimane nella cosiddetta “quindicina”. Una routine che andrà avanti fino al fatidico 1958, l’anno dell’abolizione delle case di tolleranza. Da allora, ztl notturne e retate non hanno scoraggiato l’adozione di sempre nuovi espedienti per consentire l’esercizio della professione più antica del mondo. Storia vecchia anche quella, come si vede.
Fonti:
Alessandra Demichelis, La Casa da thè (Primalpe)
Antonio Sartoris, Via Chiusa Pesio n. 7 (i girini)