CUNEO - Quella primavera del 1945

L’insurrezione di Cuneo raccontata dal partigiano Nino Monaco: “I vivi salutano i morti e ritornano in su verso la città. Ora riprenderemo a vivere”

in foto: Nino Monaco (a destra) e un compagno partigiano

Maria Silvia Caffari 02/06/2022 11:56

Pubblicato in origine sul numero del 21 aprile del settimanale Cuneodice: ogni giovedì in edicola
 
Era primavera, il 25 aprile 1945, giorno in cui il CLNI ordina l’insurrezione nazionale. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia assume i poteri civili e militari in nome del Governo di Roma. A Milano sciopero generale, - che segue quello preinsurrezionale del 18 a Torino -; iniziano a convergere sulla città i reparti partigiani. Gli alleati troveranno il 30 Milano liberata. Così altre città del nord, vogliono essere loro i liberatori, dopo tanti sacrifici, dopo aver lasciato tanti morti in ogni luogo della montagna, della pianura, delle città: gli alleati a cui va la riconoscenza dell’indispensabile aiuto devono trovare l’Italia liberata da italiani.
 
La seconda guerra mondiale finisce ufficialmente con la resa della Germania l’8 maggio. Cuneo era insorta il 24, la battaglia tra le forze partigiane e i nazifascisti è durata fino al 29. “Il viadotto sullo Stura è saltato. Ḕ l’ultimo saluto delle colonne in fuga. Sulla città ancora perversa dal fremito della battaglia si leva, rossa del sangue dei caduti per la libertà, l’alba del 29 aprile 1945. Ed ora piangiamo i nostri morti... Oggi è il 30 aprile”, scrive il partigiano Giovanni “Nino” Monaco nel suo libro “L’alba era lontana”.
 
Il libro meriterebbe più conoscenza e più approfondite letture, per il dettagliato racconto della vita e della lotta partigiana in queste valli, e per il suo valore letterario. Appare strano che un titolo, mentre annuncia una storia di liberazione, introduca alla possibilità di un altro punto di vista: l’alba è metafora dell’inizio di una nuova vita liberata; ma ogni battaglia, sofferta, vinta, passa attraverso combattimenti che sempre lasciano vittime: sui cadaveri volano subito i grandi uccelli predatori, i lamenti dei feriti fan tremare il silenzio che segue ogni battaglia, turbano il sereno i pensieri e le angosce di chi non sa cosa stia succedendo ai loro amati in guerra, perché questa è la parola giusta “guerra”, senza mezzi termini, senza le ipocrisie che mascherano le proprie aggressioni da azioni giustificabili. L’alba è ancora lontana, forse ancora oggi, mentre festeggiamo il 77esimo “25 aprile”. Lo possiamo percepire meglio in questi giorni di una guerra così vicina che la sentiamo già nostra. E, forse, in qualche partigiano che sfilava nelle città liberate, tra ali di folla esultante, si mischiavano la gioia e le amarezze dei sopravvissuti, come tra chi festeggiava si confondevano le responsabilità di ognuno nel fascismo e nell’antifascismo. Giorno irripetibile, per chi ha partecipato alle più grandi sfilate, di Torino, di Milano deve essere stato un giorno di sincera esultanza, un frammento di tempo da sospendersi su ogni dolore passato e su ogni preoccupazione futura, lasciando alle spalle le distruzioni di ogni tipo, quelle degli edifici e quelle interiori, di una guerra che si è stentato e ancora ora si stenta a chiamarla anche “guerra civile”.
 
Nino Monaco non termina il suo lungo racconto con una sfilata gioiosa di vittoriosi, ma contando i morti caduti nell’ultima battaglia di Cuneo: “Sono tanti, più di quaranta, tutti caduti nell’ultima battaglia. ... Ieri siamo andati a vederli per l’ultima volta, nel grande salone del municipio. Erano là, distesi, immobili, disposti in tante file, allineati come soldati pronti per essere passati in rivista”. Monaco ne cita alcuni, con i loro nomi, e “poi c’erano tutti gli altri, quelli scesi dalla montagna, caduti sulla porta di casa, prima di poterla varcare e quelli della città, che erano usciti di casa poche ore prima e non erano più rientrati. C’erano tutti i nostri morti dell’ultimo giorno: dormivano tranquilli, colla testa appoggiata sui piccoli cuscini, gli occhi chiusi, le mani incrociate sul petto, composti e severi. ...Quel giorno in tutta la città la gente parlava sottovoce, per non disturbare i quaranta e più morti che dormivano là nel grande salone del municipio... Ogni tanto un raggio di sole passava attraverso le vetrate e illuminava quei volti. Apparivano allora più bianchi e più rigidi, come a voler dichiarare la loro ormai assoluta indifferenza per il calore e la luce del grande astro”. Poi il funerale, in una giornata “bella e il sole radioso”, e la sfilata degli autocarri con i corpi di quei ‘dormienti’ che l’autore immagina ora vicini a Duccio Galimberti. E poi la banda, e “il profumo intenso di fiori campestri”: “Non sono più soltanto i nostri quaranta morti. Sono tutti i morti di questa lunga guerra, di tutti i fronti, dai deserti dell’Africa alle steppe della Russia”.
 
Accanto a Nino cammina Nuto, Nuto Revelli, dall’aria stanca. Un breve ricordo dei tempi della Banda Italia Libera: “...quasi certamente non rivivrò più tempi belli come quelli della IV banda”. Poi “i vivi salutano i morti e ritornano in su verso la città. Ora riprenderemo a vivere. Domani 1° maggio e sfileremo per le vie della città”. Scrivevo nel 2015: “I nomi sfilavano per ogni via / e ogni disperso senza nome passò sotto il nome d’una brigata..../ Sfilavano - ognuno portandosi per mano invisibile un altro - a tracolla ancora l’arma / che in quel tal giorno s’inceppò in un istante di esitante compassione”. Il poeta cuneese Roberto Mussapi risponde alla domanda “Dove sono adesso...”: “Sono qui, nella valle scavata sotto questa valle /, la buca che genera il senso, in cui tutte / le altre morti si ricongiungono”. E ne cita tanti di quei morti, che gli dicono “non pensare a noi come si pensa ai morti / ma come soltanto pensano in sala parto / i nuovi nati al loro breve passato... Tu hai visto, quello che ti parrà illusione...”.
 
Mentre possiamo vederli anche noi, ed è sempre un poeta a fornirci di occhi, Pier Paolo Pasolini, ci fornisce anche le parole, mentre guarda il fratello Guido, partigiano ucciso: “Se ne vanno... Aiuto, ci voltano le schiene / loro schiene sotto le eroiche giacche.../ Sono così serene / le montagne verso cui ritornano, batte / così lieve il mitra sul loro fianco.../ Aiuto, se ne vanno! tornano al loro / silente mondo di Marzabotto o di via Tasso.../ mio fratello riprende il sanguinoso sonno, solo.../ Eppure, è questo un giorno di vittoria”.
 
Settantasettesimo “25 aprile”, la festa, festa di liberazione, di fine guerra, mentre ci sono guerre sempre, ovunque, oggi la minaccia è più vicina, la chiamiamo Russia contro Ucraina. Forse sono diversi i toni con cui ‘festeggiare’? C’è tra i politici italiani chi vorrebbe eliminarla, e allora mi aiuterà in fine articolo ancora un poeta, Franco Fortini: “Veramente dobbiamo esser riconoscenti alle celebrazioni... Dobbiamo essere grati a questa rara occasione se misuriamo, mentre tutti cerchiamo di ricordare, l’impossibilità di ricordare ‘veramente’. Mi avviene di leggere, in questi giorni, la frequente domanda: in che misura abbiamo adempiuto il desiderio dei combattenti di allora e dei caduti? Avremmo dovuto sapere, se non allora almeno ieri, che la storia non adempie mai i desideri ossia li adempie in tempi e modi che li rendono irriconoscibili e che ‘non questo volevo’ è la parola che accompagna ogni vittoria” (Da: “L’ospite ingrato”).

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