CUNEO - Sangue nelle saline: il massacro degli immigrati italiani ad Aigues-Mortes

Tra le otto vittime ufficiali della strage del 1893, frutto delle tensioni sociali, ci sono anche due cuneesi

Andrea Cascioli 16/08/2023 09:01

È rimasta a lungo una pagina di storia dimenticata, prima che la polemica sull’immigrazione di massa in Italia la riportasse in auge - per la verità sovente a sproposito e con numeri inverosimili - quale monito dei tempi passati agli uomini del presente. Il massacro di Aigues-Mortes del 16 e 17 agosto 1893 è in effetti una tragedia che ci interroga ancora oggi, non meno di quanto accadesse ormai quasi centotrent’anni fa.
 
Sono gli anni in cui sei milioni di italiani si riversano oltrealpe e al di là dell’oceano per cercare scampo alla fame. I francesi li osservano con sentimenti contrastanti, come accade in ogni tempo agli immigrati: sono visti da un lato come un “esercito industriale di riserva”, per usare un’abusata espressione marxiana, che consente ai grandi capitalisti di tenere sotto scacco la manodopera locale, nonché come fonte di turbolenze per l’ordine pubblico e la quiete della Francia profonda - specie nel Midi, dove in massima parte affluiscono. Dall’altro, sono l’indispensabile carburante umano per la macchina produttiva di intere filiere, come appunto la raccolta stagionale del sale organizzata ad Aigues-Mortes sotto l’egida della Compagnie des Salins du Midi. Tra i nativi c’è chi deride i loro goffi tentativi di parlare francese ribattezzandoli français de Coni, francesi di Cuneo. Dal Piemonte infatti arrivano mezzo milione di stagionali sui circa 750mila emigrati in Francia: e non è un caso se due delle otto vittime ufficiali della strage xenofoba e almeno altrettanti dispersi vengono proprio dalla vicina provincia di Cuneo. “L’italiano del nord viene in Francia a fare il muratore, quello del sud va in America a fare il gangster” farà dire l’irriverente François Cavanna, cofondatore di Charlie Hebdo, a un personaggio del suo romanzo Les Ritals.
 
La scintilla della strage: i fatti del 16 agosto alla salina Fangouse
 
Aigues-Mortes, piccolo centro nel dipartimento occitano del Gard, conta oggi poco più di 8mila abitanti ed è nota soprattutto come meta turistica per via della sua splendida cinta muraria medievale e per la prossimità alla riserva naturalistica della Camargue. All’epoca però la depressa economia cittadina offre ai quasi 4mila residenti ben scarse alternative, oltre all’impiego nelle saline. Qui alle poche decine di sauniers assunti in pianta stabile si affiancano, per il solo mese di agosto, un migliaio di operai stagionali impegnati nelle operazioni di battage (frantumazione del sale) e levage (trasporto). Nell’agosto del 1893, la Compagnie des Salins dichiara di avere alle sue dipendenze circa 300 italiani su 900 assunti. Un numero addirittura in diminuzione rispetto agli anni precedenti, cui va aggiunta la massa di aspiranti lavoratori - un paio di migliaia - che si accalca alle porte della città in cerca di impiego. La gran parte è costituita dai cosiddetti trimards, eredi dei più antichi compagnons, ovvero un insieme di manovali itineranti, mal visti dagli stessi abitanti del luogo e sovente considerati poco più che delinquenti comuni.
 
Saranno proprio loro ad aizzare la canaille contro gli italiani e a guidare i tumulti con efferatezza omicida. Il lavoro nelle saline del resto è durissimo per tutti, come testimonierà uno dei sopravvissuti alla mattanza, l’operaio Salvatore Gatti di Casteggio (Pv): la giornata di lavoro è di undici ore, con una pausa di un’ora. Gli operai sono divisi per nazionalità in squadre (bricoles), ciascuna sottoposta a un bayle che agisce in sostanza come un caporale. Per la fase del battage è prevista una paga fissa, mentre il levage è compensato a cottimo: il tutto frutta un guadagno netto di 180 o 200 lire a stagione ovvero, spiega Gatti, “quanto ci occorre per vestirci o calzarci un po’ pulitamente durante tutto il resto dell’annata”. Alla vigilia dei fatti di sangue di Aigues-Mortes il salario è inalterato ormai da un quindicennio, mentre il sistema del cottimo contribuisce ad alimentare tensioni e rivalità fra i lavoratori: il giorno 16 agosto queste esplodono alla salina di Fangouse, dove scoppia una rissa tra un centinaio di italiani e una quarantina di francesi. Causa scatenante, pare, il lancio di un sasso contro gli immigrati che stavano consumando il loro pasto. Gli italiani inferociti circondano una baracca armati di pale, bastoni e bottiglie: il più esagitato è un 24enne di Vernante, un certo Giovanni Giordano. Interviene a quel punto con i gendarmi il juge de paix di Aigues-Mortes, Hugoux, che fa rinchiudere Giordano ma poi lo rilascia dopo aver quietato gli animi. L’incidente sembra rientrato: si contano una manciata di feriti in entrambi i campi, nessuno grave.
 
Caccia all’italiano: i linciaggi innescati dalle notizie false
 
Il guaio però è che in paese si stanno diffondendo voci sempre più allarmanti sull’accaduto. Si parla di uccisioni di francesi, di vere e proprie sommosse. C’è quanto basta per innescare nel primo pomeriggio i tentativi di linciaggio: nel panificio Fontaine di piazza San Luigi, cuore della città, trovano rifugio a stento una sessantina di immigrati. “A caccia dell’orso!” urlano i gruppi di trimards e di residenti del posto. A tutela dell’ordine pubblico ci sono appena sei gendarmi e una quindicina di doganieri, impotenti di fronte ai tumulti. Si telegrafa a Nimes per chiedere l’invio di rinforzi militari ma questi, inspiegabilmente, giungeranno solo dopo un’intera giornata. Intanto pur di placare gli animi il sindaco, d’accordo col prefetto, fa stampare manifesti con i quali annuncia che la Compagnia “ha privato di lavoro le persone di nazionalità italiana” e invita la popolazione a cessare i disordini. Non basta nemmeno questo. Alle otto della mattina successiva circa 500 insorti armati si dirigono verso Fangouse, dove un’ottantina di operai italiani sono rimasti ad attendere i compagni di lavoro, ignari di tutto. Una colonna di gendarmi al comando del capitano Cabley tenta di difenderli ma un secondo gruppo di linciatori gli è già addosso: la folla si insinua con forconi e randelli mentre gli italiani vengono fatti marciare verso Aigues-Mortes, con l’obiettivo di metterli al sicuro. Quando le mura della città sono ormai in vista sopraggiunge anche la seconda banda e incomincia la strage: un bracconiere di nome Joseph Constant apre il fuoco sui babi, altri contadini inseguono i fuggitivi nelle vigne per finirli. Il vernantino Giordano racconterà di essere stato buttato a terra e pestato da quattro individui ma poi salvato dall’intervento di uno di loro, che lo riconosce per aver lavorato con lui e lo grazia. Non va altrettanto bene ad altri: “Un mio amico - riferisce il toscano Angelo Pistelli - cadde colpito alla schiena da una pallottola e mi gridò prima di morire: ‘Saluta mia madre’… e… non potei più capire altro perché uno scoppio di pianto gli troncò la parola e cadde bocconi sul terreno. Vidi della gente calpestarlo”.
 
Anche entro le mura della città il corteo viene assalito dai facinorosi, tra cui si annoverano ragazzini e donne. Il cronista del Journal du Midi descrive “una scena di un’efferatezza senza precedenti e indegna di un popolo civile” cui ha assistito: “Verso le due e mezza del pomeriggio, in piena piazza San Luigi, un povero disgraziato è stato assalito da una banda di bruti ed è stato letteralmente massacrato. I forsennati lo hanno abbandonato solo dopo avergli ridotto il cranio in poltiglia”. Un episodio analogo si consuma a un quarto d’ora di distanza, quando un altro operaio cade sotto i colpi di una banda davanti agli occhi del prefetto e dei magistrati del tribunale. C’è chi rifiuta di offrire rifugio ai perseguitati abbandonandoli al massacro, come un certo Granier che si affretta a chiudere il cancello di casa per timore della folla, ma c’è anche chi mette a rischio la propria vita per sottrarne altre al linciaggio. Lo fa il parroco don Mauger, un ex cappellano militare, che salva alcuni feriti e raggiunge i morenti per offrire conforto: “La mia condotta in queste deplorevoli circostanze - scriverà in una lettera al giornale La Tribuna - è stata quella del prete che non distingue né nazionalità, né lingue differenti”. In pochi, però, la pensano come lui.
 
Sono ormai le cinque di pomeriggio del 17 agosto quando finalmente i 50 artiglieri a cavallo e i 150 fanti comandati dal generale Cazes entrano nella piazza principale e sgomberano i manifestanti. Gli italiani rinchiusi da 27 ore nel panificio e quelli riparatisi nella torre di Costanza vengono fatti partire per Marsiglia. Diciassette di loro sono feriti in modo troppo grave per essere trasferiti e uno, il 29enne pinerolese Vittorio Caffaro, morirà di tetano un mese dopo. Insieme a lui ci sono altri sette morti ufficiali: i due cuneesi Stanislao Giuseppe Merlo da San Biagio di Centallo (29 anni) e Giovanni Bonetto di Frassino (31 anni), poi Giuseppe Tasso detto Carlo del comune alessandrino di Castelceriolo (58 anni), Bartolomeo Calori di Torino (26 anni), Lorenzo Rolando di Altare nel Savonese (31 anni), Paolo Zanetti di Nese in provincia di Bergamo (29 anni). Dell’ultimo cadavere non si conosce l’identità, ma potrebbe trattarsi di un 26enne astigiano di Tigliole di nome Secondo Torchio, oppure di un altro dei dispersi. All’altezza del 18 novembre 1893 se ne contano ben quattordici, compresi altri due cuneesi: il 47enne Filippo Castagno di Villafalletto, residente da un trentennio a Marsiglia, e Chiaffredo Mainero di Moretta, atteso invano dalla moglie e dai figli.
 
Tutti responsabili, nessun colpevole: il processo ai trimards
 
La mattanza tra le saline della Camargue provoca reazioni violente anche al di qua delle Alpi. Succede in particolare a Roma quando una folla assalta l’ambasciata francese di palazzo Farnese e a Napoli, dove dal 20 agosto le proteste anti-francesi si saldano con gli scioperi dando vita a un’autentica insurrezione per una settimana: alla fine sul terreno rimarranno cinque morti tra cui un ragazzino di 13 anni, Nunzio De Matteis, ucciso da un carabiniere. L’inchiesta sugli omicidi degli operai delle saline è condotta in modo sommario e complicata dalle difficoltà nell’identificare i trimards coinvolti: molti si sono già dati alla macchia ma sedici di loro finiscono comunque alla sbarra nel processo celebrato tra il 27 e il 30 dicembre. È imputato anche l’italiano Giordano, nel tentativo di accreditare l’ipotesi che la strage del 17 agosto fosse in realtà una risposta ad altrettanto gravi eccessi posti in essere dagli immigrati il giorno prima. Per la verità il pubblico ministero Alphandéry, pur imputando ai soli italiani i fatti del 16 e sostenendo la colpevolezza di Giordano al riguardo, non giustificherà le rappresaglie sanguinose e chiederà comunque una condanna per sei individui definiti “indegni di pietà”. Il verdetto dei giudici popolari, invece, è di assoluzione per tutti.
 
L’insostenibile equivalenza tra la rissa del giorno 16 e la carneficina del 17 viene del resto riproposta anche da molta parte della stampa transalpina. È il caso del Petit Méridional che ancora il 20 agosto accredita l’esistenza di cinque vittime francesi e che non smentirà la falsa notizia nemmeno nelle edizioni successive. Il quotidiano nizzardo l’Éclaireur sostiene il 19 che “parecchi feriti francesi versano in condizioni disperate e non passeranno la notte”, mentre l’altro foglio di Nizza, il Petit Niçois, afferma qualche giorno più tardi che addirittura siano gli operai francesi a nutrire “paura del ritorno offensivo di un certo numero di italiani”. Segno che già oltre cento anni prima dell’avvento dei social e delle bufale copincollate su Whatsapp e Telegram c’era più di qualche fondato motivo per nutrire sfiducia nella circolazione delle informazioni.
 
Fonte: Enzo Barnabà, “Morte agli italiani! Il massacro di Aigues-Mortes del 1893”, Infinito Edizioni

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