“La prima lingua che ho imparato non è stato lo spagnolo, ma il Piemontese, perché tra di loro parlavano Piemonteis”, ha detto Papa Francesco in un’intervista a “Che tempo che fa” ricordando i suoi nonni. Effettivamente una volta era così: i nostri bisnonni hanno insegnato il Piemontese ai nonni, che a loro volta l’hanno tramandato ai nostri genitori. E la tradizione andava avanti da tempo, ma poi qualcosa si è rotto in quel meccanismo automatico e in parte inconsapevole che portava con sé secoli di tradizioni. I nostri genitori hanno iniziato a parlare italiano e noi, di conseguenza, abbiamo dimenticato la lingua del nostro territorio.
Oggi, 17 gennaio, è la Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali istituita nel 2013 dall’Unione Nazionale Pro Loco d’Italia (Unpli) con il fine di valorizzare le parlate della tradizione, che sono diventate sempre di più un ricordo nostalgico dei tempi passati e sempre meno uno strumento utile alla comunicazione. Sembra proprio serva una giornata ad hoc per ricordare a tutti che il Piemontese è parte della nostra storia e ha portato con sé un valore che conserva tutt’oggi ma che ci stiamo dimenticando. Eppure, non sono passati millenni da quando nella Granda si parlava Piemontese nella vita quotidiana. Mia bisnonna, classe 1922, non ha mai studiato l’italiano, l’ha imparato quando era già adulta, forse quasi anziana, grazie ai figli che andavano a scuola e si improvvisavano traduttori. Oggi però quelle sono solo storie che riprendono vita durante i pranzi di famiglia e che portano con sé quel fascino quasi nostalgico che accompagna la consapevolezza che quei tempi non ci appartengono più. Nessuno parla Piemontese, se non in qualche raro caso soprattutto tra le persone più anziane o nei paesi di montagna. I dati Istat più recenti che fotografano il fenomeno sono aggiornati ormai a nove anni fa, ma non servono i numeri per sapere che si tratta di una questione quantomai attuale che tocca la maggior parte dei giovani cuneesi.
Secondo gli esperti dell’Alliance for Linguistic Diversity, il rischio che alcune lingue e altrettanti dialetti scompaiano è sempre più reale. Tra questi ci sono il Piemontese, il Romagnolo e il Friulano, parlati da poco più di 300 mila persone. Non è andata così però in tutte le regioni, in molte non è raro sentire ragazzi che si rivolgono ai coetanei o al panettiere utilizzando il dialetto. Noi però quella tradizione l’abbiamo persa e con lei stiamo dimenticando tutte le storie legate al territorio.
Il Piemontese porta con sé sfaccettature che sono specchio delle nostre valli. Non esiste una sola variante del dialetto, ma il panorama linguistico regionale è molto vario. Come riporta il documento “Il patrimonio linguistico del Piemonte” redatto dal Consiglio regionale a luglio 2001 ma ancora attuale, “nelle valli a partire dall’Alta Valle di Susa si susseguono verso sud sino al Monregalese, cioè nelle valli Chisone, Germanasca, Pellice, Po, Varaita, Maira, Grana, Stura, Gesso, Vermenagna e ancora nelle valli Ellero e Corsaglia, le parlate originali di tipo provenzale, anche chiamate occitaniche”.
Invece, partendo dalla Valle Sangone, passando per “la Bassa Valle di Susa con la propaggine della Val Cenischia, le tre Valli di Lanzo, quella dell’Orco, la Val Soana e la Val Chiusella”, la parlata originale è stata denominata franco-provenzale. In aggiunta, nel segmento settentrionale delle Alpi piemontesi si possono incontrare anche parlate di tipo germanico. Tutte queste varietà nel tempo si sono modificate con l’aumento degli spostamenti delle popolazioni, con l’influenza dell’italiano e infine con la diffusione di internet. E in qualche decennio l’italiano, con l’aggiunta delle altre lingue straniere, ha quasi del tutto calpestato il Piemontese soprattutto nei centri più popolati.
Proprio da qui si potrebbe partire per salvare il nostro dialetto, dalla consapevolezza che dimenticando una parte della nostra lingua si rischia di perdere un pezzo di storia e di ricordare il Piemontese come qualcosa di passato e sconosciuto, da vivere con malinconia e curiosità come quando si ascoltano le bisnonne raccontare le storie delle masche. La colpa di questa mancanza può essere equamente divisa tra più parti: i genitori che non hanno saputo tramandare il valore delle tradizioni ai figli e i giovani che non hanno dimostrato l’interesse per la loro lingua in via d’estinzione. Una parte va anche attribuita alle istituzioni e agli enti che dovrebbero essere scrigni di tradizioni e cultura, ma che hanno dimenticato un pezzo fondamentale di storia, prosa, poesia e musica, non sapendogli attribuire il giusto valore.
“Ognidun ant sò vilagi/dev avej la gelosìa/dë spieghesse ‘nt sò linguagi” (ognuno nel suo villaggio/ deve aver l’orgoglio/di esprimersi nel suo linguaggio), ha scritto il poeta e medico torinese Edoardo Ignazio Calvo (1773-1804). In Piemonte queste parole sembrano non essere più vere, ma da qualche parte, molto lontano da qui, il Piemontese si parla ancora. In Argentina esiste una scuola di Piemontese, “Cerea”, nata da un’idea del professore discendente di piemontesi Ronal Comba che ha deciso di insegnare il dialetto utilizzando un gruppo su Whatsapp e rendendo le lezioni disponibili gratuitamente su Youtube (Curso gratuito de Lengua Piemontesa).
Allora in questo senso le parole di Renzo Galdolfo (1900-1987), il cuneese fondatore dell’associazione Centro Studi Piemontesi (1969), acquistano ancora più importanza e forse almeno per oggi dovremmo provare a farle nostre: “A l’é nen për un balin: a l’é për ëd rason che i chërdoma serie e bin fondà, se insistoma an sla question dël parlé piemontèis, dël përchè ij piemontèis a devo continué a parlé piemontèis... A l’é richëssa ‘d cheur e ‘d testa: se a-j manco, la pianta-òm a pòch a pòch a perd soa sàiva e, sensa rèis, a antisichiss e a meuir...”.