In occasione dell’8 marzo, festa della donna, ripercorriamo la vicenda di un “delitto d’onore” che scosse la città di Cuneo alla metà degli anni Settanta.
È un delitto vecchio di oltre quarantacinque anni, anche se sembra incredibile pensare che meno di cinque decenni fa una ragazza potesse ancora morire perché rimasta incinta a poche settimane dalle nozze.
Non in un Paese lontano, o in una di quelle regioni italiane dove il matrimonio riparatore sarebbe parso l’unica speranza per la “svergognata”, ma nel centro di Cuneo. Anzi nella sede dell’attività governativa nella nostra provincia, il palazzo della Prefettura di via Roma. Vittima dell’omicidio, commesso in modo efferato la sera del 30 luglio 1975, è la figlia maggiore del custode, la 25enne Piera Carle. Il suo non è esattamente quel che oggi definiremmo - con un discutibile neologismo - un “femminicidio”, ma è un assassinio dettato da una concezione distorta dell’onore femminile per il quale una mamma può essere disposta a massacrare la figlia. Si scoprirà infatti che la colpa di Piera era stata l’aver celato alla madre, la 45enne Francesca Daziano, che aspettava un bambino dal fidanzato storico, un coetaneo che avrebbe sposato a settembre.
È la mattina del 31 luglio quando il 57enne Luigi Carle, reduce di Russia originario di Chiusa Pesio, raggiunge il bagno del suo alloggio e trova la porta ostruita. Dall’altra parte c’è il cadavere di Piera, riverso su un fianco, chiazzato da macchioline di sangue e con il viso volto al soffitto. C’è sangue anche sulle pareti. La ragazza indossa reggiseno e mutandine e sotto al suo corpo verrà trovata una medaglietta d’argento. Quanto alla reazione del padre, il primo a chiedere aiuto avvisando l’agente di guardia, La Stampa scriverà: “Forse l’uomo è rimasto choccato. Non è stato più in grado di comportarsi normalmente. Si sa che, nonostante l’atroce visione, è andato nell’alloggio del prefetto, dottor Luigi Spano, che è scapolo e quindi vive solo, gli ha portato i giornali e il caffè. Erano le 7,15. Il funzionario ha visto che Luigi Carle era pallido in volto, scosso e gli ha chiesto se si sentiva poco bene. La risposta dell’uomo è stata: «Ho trovato mia figlia morta nel bagno. C’era sangue dappertutto»”.
Sul posto arrivano subito il capo della Mobile Umberto Negro con gli agenti della Scientifica e il dottor Curlo, il medico legale. Si scopre che a Piera sono stati inferti numerosi colpi in testa con un oggetto contundente, forse un punteruolo, e che il collo presenta segni di strangolamento. Viene vagliata l’ipotesi di un maniaco ma sembra subito improbabile, dato che per entrare nell’alloggio del custode bisogna superare una guardina presidiata da un poliziotto. Inoltre, il cane di famiglia non ha abbaiato a nessuno e nessuno ha sentito la ragazza gridare. A portare gli inquirenti sulla pista giusta è quella medaglietta trovata sulla scena del delitto, assieme all’anello di una catenina. Gli uomini della Mobile interrogano Francesca Daziano, madre della vittima, per scoprire a chi appartenga: la donna dice che era stata regalata a Piera dalla futura suocera, di ritorno da un viaggio. Poi però ammette di averla ricevuta a sua volta dalla figlia. È l’indizio decisivo, assieme alle ecchimosi e i graffi che con il passare del tempo le spuntano sotto l’occhio destro, sulle mani, su un braccio. Dopo sette ore la sospettata crolla e confessa tutto.
Dapprincipio sui giornali e nei pettegolezzi cittadini si parla di una crisi di gelosia: la Daziano sarebbe stata segretamente infatuata del giovane con cui sua figlia, commessa in un negozio di corso Nizza, era fidanzata da ben undici anni e che si preparava a sposare poche settimane dopo. Ma lei racconta un’altra verità: “L’ho uccisa perché non voleva dirmi se era incinta”. Per questo, a seguito di un violento litigio in bagno, aveva afferrato un martello a portata di mano colpendo Piera alla testa con il lato più sottile dell’attrezzo e infine strangolandola. Durante il processo cade il tentativo della difesa di dimostrare l’infermità mentale dell’accusata. Un insperato “soccorso” le arriva però dal procuratore capo Sebastiano Campisi che al termine dell’istruttoria chiederà appena sei anni di condanna: “Non mi sento di infierire su questa donna che ha ucciso per un senso dell’onore così radicato fra la gente di montagna” si giustifica, aggiungendo che “la Daziano, donna non femminista ma legata a solidi valori morali e sociali, voleva che sua figlia giungesse illibata al matrimonio e con tanti fiori e un velo bianco”. All’imputata la Procura riconosce tutte le attenuanti compresa la provocazione, poiché pare che la figlia avesse risposto “fatti gli affari tuoi” alla madre che insisteva perché le rivelasse la causa del suo ritardo mestruale.
A difendere l’omicida ci sono gli avvocati Aldo Viglione, presidente della Regione in carica per il Psi, e Bruno Dalmasso. Viglione - parafrasando Gramsci - definisce la società in cui è maturato il delitto “un vecchio che non vuole morire mentre il nuovo non vuole ancora nascere”. Anche il collega Dalmasso chiama in causa i condizionamenti culturali: “Non dimentichiamo che la Daziano è nata a Combe, una sperduta frazione della Val Pesio, una valle che si dimostrò antidivorzista all’80 per cento. Lì, in quell’ambiente, certi valori sono ancora molto sentiti”. Il riferimento è al referendum sul divorzio del 1974: i no all’abolizione della legge Fortuna-Baslini nella cattolicissima Granda avevano vinto con appena il 51,88%, contro una media regionale del 70%. Nella primavera del 1977, quando si conclude il processo di primo grado, sono trascorsi poco più di dieci anni da un’altra sentenza, quella del “caso Franca Viola” che per prima aveva sconfessato l’istituto del matrimonio riparatore. La norma è ancora in vigore e lo resterà fino al 1981, mentre solo dal 1996 lo stupro sarà riconosciuto come reato contro la persona e non più come oltraggio alla morale.
Ciononostante, in molti dissentono dalla scelta del pubblico ministero: lo fanno i numerosissimi spettatori presenti e i cronisti della Stampa, Gianni De Matteis e Edoardo Ballone. Ma anche la stessa Corte d’Assise dove sei giudici popolari, tra cui due donne, siedono assieme ai due magistrati. Il verdetto sarà di condanna per omicidio volontario a tredici anni e otto mesi, con il riconoscimento delle attenuanti generiche ma non della provocazione né del “particolare valore morale” del delitto. “Il diritto non può premiare atteggiamenti intessuti di pregiudizio e di egoistico rancore in un’epoca che, anche attraverso l’uso di capillari strumenti di informazione, ha dissacrato molti dei più vieti tabù” commenterà il giurista Giovanni Conso, futuro presidente della Corte costituzionale e ministro della giustizia: “D’accordo che vi sono zone e zone, quelle più evolute e quelle più arretrate. I giudici popolari di Cuneo hanno rifiutato la seconda etichetta per il territorio di loro competenza”. Anche “il diffuso atteggiamento anti-divorzista ed anti-abortista riscontrabile in quelle valli” avrebbe semmai fornito argomenti opposti alla concessione di un’attenuante per l’omicidio di una donna incinta: “In tale caso, per un anti-abortista, le vite eliminate sono due. Con forza ancora maggiore, il diritto alla vita chiede di essere proclamato, tutelato e difeso di fronte ad altri valori, ivi compreso quello dell’onore familiare”.