Ci sono autori, di solito quelli che riempiono le sale al Salone del Libro, la cui principale dote è di farsi trovare sempre nel punto esatto in cui ti aspetteresti di vederli. Possono parlare di immigrazione, di guerra atomica, di patriarcato o di precariato, ma il loro compito resta ovunque il medesimo: dispensare l’ovvio dei popoli a folle rassicurate e plaudenti. Walter Siti è un po’ l’antitesi di tutto questo, in tal senso è un intellettuale nell’accezione che Pierre Drieu La Rochelle - dandy e scrittore di inizio ‘900, fascista e poi collaborazionista, per finire suicida - attribuiva al termine: l’intellettuale è colui che va “dove non c’è nessuno”.
Niente applausi facili, quando si parla del modo in cui la letteratura “giornalisticizzata” stia ammazzando le belle lettere (e pure il giornalismo, aggiungiamo noi), o di come a forza di cercare di inserire donne e minoranze, in antologie scritte col bilancino da farmacista, si sprofondi nel ridicolo: “Ho un amico curatore di grandi mostre. Mi dice che da quattro o cinque anni, per avere i finanziamenti delle regioni, deve proporre mostre di pittrici: solo che le ha finite e non sa più cosa inventarsi. D’altronde una vecchia critica d’arte diceva: ‘Ci sono meno grandi pittrici che grandi pittori, per la stessa ragione per cui ci sono meno tennisti eschimesi’”. Siti è così, piaccia o no, ma non è un cattivo compiaciuto, alla maniera di Massimiliano Parente o Guia Soncini. E nemmeno, a dispetto dell’età, un “boomerone” della cultura.
Lo ha dimostrato una volta di più nella serata dronerese che l’ha visto ospite del festival “Ponte del Dialogo”. Quasi due ore di dialogo con l’allievo Gianmarco Perale, senza rete, soprattutto senza niente di scontato. Si parla di cosa renda la letteratura “di conoscenza” diversa da quella “di intrattenimento”. Di certo non i temi: nessuno, oggi, annovererebbe Philip K. Dick o Stephen King tra gli autori minori in base al fatto che hanno scritto di fantascienza e horror. Per contro, osserva Siti, “ho l’impressione che molta letteratura che parla di migranti o gestazione per altri, di fatto, confermi i lettori in quello che i lettori sanno già”. Quindi puro intrattenimento: “Quale intrattenimento è migliore del leggere ciò che ti conferma di essere buono e nel giusto? È un intrattenimento morale”.
“Nella letteratura di intrattenimento il dato principale è la storia, in quella di conoscenza no” prova a sintetizzare Perale: “Nei libri di poca qualità intuiamo che l’autore ci sta portando verso una direzione”. Mentre la grande letteratura ti mette di fronte ai personaggi e poi ti lascia solo: “Lolita sarebbe un libro da bandire, invece alla fine io arrivo quasi a tifare per questa storia d’amore”. L’autore di Le cose di Benni e Amico mio, classe 1988, ammette di non saper definire cosa renda davvero tale un capolavoro, cioè cosa distingua Lolita da un libro pornografico. Siti, docente e critico letterario prima di divenire scrittore, dice invece che bisogna almeno provarci. Ma è sempre più difficile, anche perché nessuno aiuta a farlo: “In mancanza di elementi ufficiali, l’accademia sempre di più si ritrae nella sicurezza, magari trattando autori del ‘500. I giornali spesso preferiscono non dare giudizi di valore: difficile leggere ‘è un bel libro’ o ‘un brutto libro’, ancora più difficile che questo giudizio lo argomentino”.
Chi l’ha detto che è un bel libro? Appunti per sopravvivere al canone
Ma così, protesta l’anziano scrittore, si rischia di finire nell’hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere, di passare alle emozioni pure e semplici: questo mi ha fatto piangere, questo mi ha preso alla pancia. “Non sono mai dimostrazioni matematiche, - precisa subito - ma mi sentirei di prendere un canto di Dante e una poesia di Arminio e cercare di spiegare perché il canto di Dante mi sembri più ricco”. Il che non vuol dire, beninteso, che i maestri non sbaglino: “Si pensa poco al fatto che i grandi autori hanno a volte scritto cose brutte: il quinto canto dell’Inferno è pieno di ‘ed elli a me’, ‘’l cominciai’. Si sarebbe vergognato di scriverlo nel Paradiso, ma qui Dante è impacciato, è il primo canto che prova a scrivere in questa nuova maniera. Ci sono anche sonetti di Petrarca con mezzi versi che sono pure zeppe e tu consiglieresti a qualunque poeta di toglierle”.
Si torna a interrogarsi su cosa renda grande letteratura quel che è grande letteratura, su un piano più oggettivo possibile. Siti menziona la coerenza, poi la capacità di evitare il comico involontario. Un esempio: in Domani, domani di Francesca Giannone un barcaiolo si dà una martellata su un dito ed esclama “accipicchia”. “Quando leggo una cosa del genere esco dalla magia del libro, perché la risata mi porta al di fuori” dice Siti. Perale aggiunge: “Nella vita reale due persone spesso non si capiscono, mentre nei pessimi libri si capiscono sempre”. Perché la letteratura non è il racconto esatto del reale, sta in uno spazio di un millimetro: “È quasi come la realtà, ma non è la realtà. È la realtà al netto delle cose noiose”.
Ancora: sono davvero belli i libri in cui non puoi permetterti di saltare una pagina. “Cosa che non ti viene in mente di fare con i Fratelli Karamazov di Dostoevskij, che pure è un giallo” sottolinea Siti: “Non sai mai se non salterà fuori una frase, anche minuscola, in risonanza con altri livelli”. Lui lo definisce lo “spessore del libro”, la capacità di tenere insieme tutto con coerenza: “Dall’inconscio dell’autore al privato dei personaggi, all’ambiente sociale, fino a qualcosa che spieghi dove siamo messi nella storia. Guerra e Pace parla di una ragazzina che scopre l’amore per un uomo di 25 anni, per l’epoca maturo, e poi c’è la guerra: senti circonferenze diverse, una piccola, una più grande, una enorme, che si tengono insieme come cerchi nell’acqua che si allargano. Considero questi libri più belli di quelli che magari trattano temi importanti ma hanno poco spessore, perché non c’è il mondo intorno”.
Poi c’è la libertà dei personaggi, l’idea che la letteratura, come lo spirito, soffia dove vuole: “Non sono così sicuro che uno scrittore sia del tutto padrone di quello che scrive: a volte ci si trova a scrivere qualcosa che non era ciò che avevamo progettato”. In Santa Giovanna dei Macelli, Bertolt Brecht parte con la volontà di mostrare la ferocia del capitalismo, ma poi la protagonista si ritrova inorridita di fronte ai morti provocati dalle violenze in uno sciopero: “Non è quello che Brecht voleva dimostrare all’inizio”. La letteratura “di conoscenza”, quindi, è tale perché “ti porta a conoscere cose di te e degli altri che non sapevi”, ti educa nell’impresa di comprendere la bellezza: “La bellezza non te la regala nessuno, è molto difficile da raggiungere: ma resta un obiettivo. Per me è stato un grande aiuto nella vita, se mi avessero fatto soltanto leggere paccottiglia non penso avrei avuto questo aiuto”.
“Mettici una donna”: la “cultura del risarcimento” vive a spese della bellezza
Il canone letterario è finito. Ma allora, si chiede Siti, cosa dovrebbe far leggere ai suoi ragazzi un professore di scuola media? C’è chi tenta di riscrivere le antologie inserendo autori di classi subalterne, soprattutto scrittrici: “È un gesto politico che si può sostenere fino in fondo? Dobbiamo pensare che Grazia Deledda sia allo stesso livello di Flaubert o a un certo punto bisogna dire che ci sono state molte meno scrittrici solo perché, per molti secoli, più donne sono state analfabete? Sento che politicamente esiste il tema del ‘risarcimento’, dopo secoli di repressione. Ma a spese di cosa? Di nuovo a spese della bellezza?”. “La cultura non si dovrebbe muovere per sensi di colpa, anche perché sarebbe poco dignitoso per chi viene incluso solo per il fatto di essere, ad esempio, una poetessa trans” aggiunge Perale.
La letteratura oggi si piega in molti modi a questo conformismo. Siti racconta un episodio di cui era stato testimone quando lavorava da Rizzoli: un giovane autore descriveva a un editor il protagonista del poliziesco che stava scrivendo, un commissario. “Non sarebbe meglio una commissaria?” ribatteva l’editor. E le scuole di scrittura? Chi non ha talento non se lo può dare, come il coraggio di don Abbondio: “La scuola non te lo può insegnare, è già molto se non lo rovina. Perché a volte le case editrici lo fanno”.
Il romanzo è morto, evviva il romanzo (che ora è anche graphic novel)
La “morte del romanzo” è già stata proclamata innumerevoli volte e altrettante volte il romanzo è risorto. Non c’è da fidarsi: “In un certo senso - spiega Siti - il romanzo è un genere che si è mangiato di tutto e non è mai morto, perché è diventato sempre qualcosa di diverso: semmai, un problema degli ultimi anni è che c’è meno coraggio di sperimentare, anche perché nessun editore se la sente troppo di scommettere. L’avanguardia non la fa quasi più nessuno, è come se ci fosse un’omologazione. Paradossalmente, ho l’impressione che i generi che raccontano meglio il mondo siano la fantascienza e l’horror”.
Eccezioni positive se ne trovano, anche da noi: “Il romanzo più nuovo che ho letto negli ultimi anni in Italia è stato Le ripetizioni di Giulio Mozzi, perché l’orrore descritto è talmente forte che l’autore stesso a un certo punto si ribella. Preferisco un romanzo che prova a fare questo, piuttosto che l’ennesimo romanzo che mi parla del barcone dei migranti: io dopo un po’ mi annoio”. Si discute, però, del fatto che il libro scritto stia diventando “troppo poco”, perché i giovani non sono più abituati a leggere e basta: “Si pensa a romanzi multimediali, con inserti musicali o visivi. Probabilmente andiamo verso una trasformazione ancora maggiore, ma siamo in mezzo al fiume”.
Perale fa notare che sono “romanzi” anche tanti prodotti culturali che non siamo abituati a chiamare così: serie tv come Breaking Bad, manga come One Piece, L’attacco dei giganti o Berserk, o le graphic novel. Il che non toglie che la letteratura resti una cosa “per pochi”: “Ho l’impressione - riprende Siti - che si stia sempre più rifiutando l’idea che la letteratura è una cosa elitaria: prevede che ci siano lettori esperti di letteratura, come nella pittura ci sono osservatori che sanno come si guarda un quadro. Il 65% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno, quelli sono già tagliati fuori, poi c’è chi non legge letteratura. Forse sarebbe bene abituarsi a pensare che la letteratura è difficile e richiede competenza, mentre la politica dovrebbe farsi capire da tutti: credo invece che stia succedendo il contrario. Pretendiamo che la letteratura sia accessibile a tutti, mentre la politica diventa sempre più tecnica e accessibile a pochi”.
La letteratura non è democratica. Ma la politica, almeno quella, dovrebbe provarci.