Saluzzo, primo maggio 1945. Un camion sfila tra una folla inferocita, desiderosa di vendetta. Sul mezzo ci sono quattro uomini e una donna: Adriano Adami, a sinistra, Marcella Catrani, Osvaldo Grechi, Vittorio Calabrese e Mario Frison. Non sono prigionieri qualsiasi, ma ex alpini del battaglione “Bassano”, della divisione “Monterosa”. L’Adami, soprannominato “Pavan” dalle genti della valle Varaita, aveva ricevuto la Croce di Ferro di II classe, un’onorificenza che i tedeschi raramente riservavano agli italiani, per via della scarsa considerazione che avevano nei confronti dell’alleato-occupato. Ma chi erano gli uomini del battaglione “Bassano” e perché erano così odiati?
Per capirlo è necessario fare marcia indietro, all’autunno del 1943. Agli albori della Repubblica di Salò i principali gerarchi del regime già litigavano su come strutturare l'apparato militare del piccolo stato satellite. Rodolfo Graziani, ministro della Difesa, puntava a creare un esercito “nazionale e apolitico”, per riprendere la lotta accanto ai nazisti. Il suo proposito veniva a scontrarsi non soltanto con alcuni elementi radicali del Partito Fascista Repubblicano, che intendevano creare un esercito di partito sul modello delle SS tedesche, ma anche contro gli alleati germanici, che non si fidavano degli italiani. Graziani comunque ottenne il permesso di allestire quattro divisioni combattenti. Una di esse sarebbe stata la “Monterosa”. Le reclute furono addestrate direttamente in Germania da ufficiali della Wehrmacht e furono rimpatriate soltanto nel mese di agosto del 1944. Al loro arrivo furono posizionate principalmente tra Piemonte e Liguria in funzione antipartigiana, e in una piccola zona del fronte, in Garfagnana. Le quattro divisioni condussero “un'esistenza difficoltosa, esposte ai contraccolpi della guerra civile e dissanguate dall'esodo di soldati e ufficiali”. Fu la sorte degli alpini del battaglione “Bassano” della Divisione “Monterosa” e di alcuni reparti della “Littorio” e della “San Marco”.
Il battaglione “Bassano”, composto in prevalenza da reclute venete, arrivò in provincia di Cuneo il 23 settembre 1944, alle dipendenze tattiche dell’85° Gebirgsjaeger Regiment, schierandosi nelle valli Varaita e Maira. Se da un lato il loro compito era quello di tenere a bada le truppe francesi sui crinali delle alte valli, occupando le posizioni strategiche atte a contenere una possibile offensiva alleata, esse si trovarono a gestire gli attacchi partigiani nelle medie-basse. Lo storico Marco Ruzzi precisa che i partigiani cercarono “subito abboccamenti con ufficiali e sottufficiali, per indurli a trovare un modus vivendi” ma risulta che gli interpellati non cedettero.
Quindi gli alpini del “Bassano”, oltre ad essere impegnati nei combattimenti contro i francesi, si trovarono ad essere oggetto delle azioni di disturbo dei patrioti. In particolare, gli uomini della brigata “Valle Varaita” della II divisione alpina “Giustizia e Libertà” iniziarono immediatamente ad agire tramite imboscate e prelevamenti a danni dei militari. I primi scontri, tuttavia, non furono particolarmente cruenti: gli alpini, dopo essere stati fermati e trattenuti, spesso venivano rilasciati, lasciando nelle mani dei ribelli solamente il materiale. Un atteggiamento che però non durò molto. Le azioni di disturbo dei partigiani frustrarono la tenuta delle truppe che, a partire dal mese di ottobre, iniziarono anche operazioni antipartigiane. Il livello dello scontro si fece così più incalzante. Le azioni, che coinvolsero anche la 181ª brigata garibaldina “Morbiducci” e che iniziarono ad avere delle ripercussioni sulla popolazione civile, furono tali da spingere il comandante del battaglione, Molinari, a decidere “un cambiamento nel modo di condurre la guerra parallela con l'applicazione di due metodi differenti: da un lato le classiche pattuglie rastrellamento e dall'altro l'impiego delle stesse armi e degli stessi metodi dei partigiani per condurre un'efficace azione informativa”, scrive lo storico cuneese Claudio Bertolotti. Queste ultime attività furono, in particolare, competenza del tenente Adriano Adami che, con il suo nucleo di fedelissimi, quasi tutti “sottufficiali addestrati ed esperti”, si “spogliano della divisa e si vestono panni borghesi per sembrare civili oppure elementi partigiani in trasferimento”.
In seguito alla parentesi invernale, con l’avvicinarsi della primavera, ripresero le ostilità. Il 13 febbraio, in seguito all’attacco del treno Torino-Cuneo nei pressi di Ceretto da parte dei patrioti, iniziò una vasta azione di rastrellamento che coinvolse non soltanto i reparti della “Monterosa”, ma anche quelli della “Littorio”, nuclei di Brigate nere e unità tedesche. Gli scontri successivi - che portarono i partigiani a prendere prigionieri anche militi della RSI - si fecero sempre più aspri. Il 25 febbraio, scrive Bertolotti, Adami e i suoi uomini arrestarono il partigiano Enrico Rovera Monfrin che “riuscì a essere liberato dei compagni la notte seguente all'ospedale di Saluzzo; l'alpino Mario Zaborra, incaricato della sorveglianza del prigioniero, fu prelevato e ucciso a Brossasco due giorni dopo”. Si può notare che gli ultimi mesi del conflitto videro un ulteriore giro di vite alla guerra civile, constatando, sia da una parte che dall’altra, azioni di totale eliminazione del nemico.
Tra il 5 e il 6 marzo si verificò il famigerato eccidio di Valmala, in cui nove partigiani vennero uccisi. Quello che accadde veramente di fronte al Santuario non è dato da sapere con certezza: la narrativa popolare attribuì agli alpini del “Bassano” maltrattamenti e torture di ogni genere a danno dei partigiani feriti, mentre Bertolotti si dimostra più cauto, attribuendo due uccisioni al maresciallo Frison, il quale intendeva vendicarsi della morte della sorella, avvenuta per mano dei ribelli. Rimane certo che tali operazioni mirate di controbanda non solo mandarono in crisi il CLN nelle valli Varaita e Maira, ma fecero anche del gruppo antiguerruglia di Adami “per i partigiani e le popolazioni quanto di più crudele la RSI abbia espresso”. Il paradosso del “Bassano” è quindi totale; quella che doveva essere una formazione “nazionale e apolitica” si trovò non soltanto in una zona secondaria del fronte, quale l’arco alpino, ma più impegnata nella lotta contro gli italiani che contro il nemico esterno. Nei metodi, nella determinazione e anche, in alcuni casi, nella crudeltà si trovò sempre di più a competere con le unità politicizzate della GNR e delle Brigate nere, proprio nel momento in cui la guerra stava per volgere al termine, e l’impeto dell’insurrezione e della successiva resa dei conti avrebbero travolto le forze della RSI.
I partigiani, in vista della Liberazione, moltiplicarono le azioni offensive - che culminarono con l’attentato alla sede del comando di Sampeyre, il quale provocò la morte di tre alpini - ed il clima di violenza si fece sempre più irrespirabile: “Distacco e rancore da parte della popolazione civile si fecero manifesti; sul battaglione si riversarono le cause dei patimenti e delle ingiustizie subite”.
Di fronte al precipitare degli eventi, in seguito allo sfondamento della Linea Gotica, Molinari, il 24 aprile, giunse ad un accordo circa le modalità di disarmo e smobilitazione del battaglione. Nell’incontro si disciplinò anche il trattamento dei prigionieri: “I combattenti non compromessi come criminali di guerra avrebbero avuta salva la vita, mentre i cosiddetti criminali sarebbero stati giudicati dal comando della seconda Divisione”. Forse tra questi “criminali di guerra” rientravano gli ufficiali e i sottufficiali della “Banda Pavan”, tra l’altro tenuti all’oscuro degli accordi presi. Il 26 aprile infatti, mentre gli uomini del Bassano si arrendevano ai partigiani insieme a trentaquattro soldati tedeschi, Adami con un gruppo di otto persone - composto dal sottotenente Osvaldo Grechi, dal maresciallo Mario Frison, dai sergenti Guglielmo Lanza, Renzo Dalla Palma, Giuseppe Zecca, Giorgio Geminiani e dall'ausiliaria Marcella Catrani - decise di “portarsi a nord, in Val Pellice, attraversando la valle Po per unirsi ai reparti della Decima Mas lì stanziati”. La “comitiva” non fece molta strada poiché all’alba del 28 aprile, dopo uno scontro a fuoco con i partigiani che l’avevano accerchiata, fu presa prigioniera in alta Valle Po.
E lì si torna all’immagine che caratterizza il racconto. Il 1° maggio a Saluzzo “Pavan” e i suoi uomini furono sottoposti a ad un processo da un tribunale partigiano, formato dal comando della 11ª divisione “Garibaldi” e della seconda divisione alpina GL. Un tribunale - ha scritto lo stesso Giorgio Bocca - istituito “con criteri assolutamente atipici - dato il momento storico rivoluzionario”, in cui non ci fu “nulla di legale”, in un’atmosfera storica particolare - che era quella della fine di una guerra civile. La condanna a morte di Adriano Adami, Mario Frison, Alberto Alongi, Guglielmo Lanza e Giorgio Geminiani, e l’esposizione dei loro cadaveri all’odio della folla, non fu né il primo né l’ultimo atto in quei giorni di resa dei conti. Prestando servizio durante le operazioni di controguerriglia e di polizia, al pari delle odiate Brigate nere, “Pavan” e i suoi uomini furono trattati di conseguenza, non come “prigionieri di guerra” di un esercito che avrebbe dovuto - almeno secondo le intenzioni di Graziani - essere “apolitico” e “di leva”, ma come criminali appartenenti a milizie politicizzate.