Berlino, 1° maggio 1945. Ciò che resta della capitale del Reich è in fiamme e il sogno di un impero millenario si frantuma sotto i colpi dell’artiglieria sovietica. I soldati russi, che avevano visto la devastazione nazista nelle proprie terre, contando circa 25 milioni di morti nella guerra contro la Germania, sono alle porte del bunker della cancelleria. Le SS difendono fanaticamente ogni lembo di terra, arruolando vecchi e bambini nelle loro file, pena la morte.
Il führer Adolf Hitler si era tolto la vita il giorno prima, seguendo l’omologo Benito Mussolini, fucilato a Giulino di Mezzegra il 28 aprile. A dirigere il Reich morente è rimasto Joseph Goebbels, ministro per l'istruzione pubblica e la propaganda, e ministro plenipotenziario per la mobilitazione alla guerra totale, nominato cancelliere secondo le ultime volontà di Hitler. Il suo ruolo dura appena un giorno e mezzo: lui e la moglie, Magda Goebbels, nata Rietschel, si tolgono la vita la sera del 1° maggio, per non cadere vivi nelle mani sovietiche. Prima della loro fine si consuma l’ultimo atto di orrore di un regime che nulla forse aveva di umano: i coniugi Goebbels decidono l’eliminazione dei loro sei figli. Il film “La caduta - Gli ultimi giorni di Hitler”, del 2004, ripercorre con precisione quei momenti: Magda, assistita dai medici delle SS Ludwig Stumpfegger e Helmut Kunz, narcotizza i figli e poi somministra loro capsule di cianuro. Prima di togliersi la vita, Magda scrive una lettera a Harald Quandt, frutto del primo matrimonio con l’industriale Günther Quandt: “Il nostro glorioso ideale è andato in rovina e con esso tutto ciò che di bello e meraviglioso ho conosciuto nella mia vita. Il mondo che verrà dopo il Führer e il nazionalsocialismo non è più degno di essere vissuto e quindi porterò i bambini con me…”.
Harald era caduto prigioniero degli Alleati nella Penisola italica un anno prima, nel ’44, prestando servizio come tenente della Luftwaffe. Forse fu proprio la prigionia a salvargli la vita. Se fosse rimasto a Berlino o si sarebbe tolto la vita, oppure sarebbe finito nelle mani dei sovietici, che sicuramente avrebbero riservato per lui un destino diverso. Così accadde al nipote di Hitler, Heinz, figlio di Alois Hitler e della sua seconda moglie Hedwig Heidemann, catturato nel 1942 e torturato a morte nel carcere militare di Butyrka a Mosca, all'età di 21 anni.
Ma la stella dei Quandt era destinata a splendere anche dopo la guerra. Tra i più ricchi della Germania, i Quandt si erano messi in luce già all’epoca della Grande Guerra, fornendo le divise all’esercito tedesco. Con i fondi ricavati dalla vendita delle uniformi, Günther acquisì, dopo il conflitto, la Accumulatorenfabrik Ag, una fabbrica di batterie che divenne nota con il nome Varta. Tra le altre cose, Quandt acquistò quote societarie della Bmw e della Daimler-Benz. Oltre ad essere un imprenditore di successo, Günther era anche un fervente nazista e, nel 1933, aderì al partito di Hitler. Nel 1937 fu nominato dal führer stesso Wehrwirtschaftsführer, un titolo onorifico che veniva assegnato ai capi delle società legate agli armamenti. Quandt, come nel conflitto precedente, aveva fiutato la possibilità di fare affari con una nuova guerra imminente e quindi aveva iniziato a produrre, nelle sue fabbriche, materiali utili allo sforzo bellico. Ma questa volta con un’aggravante in più. Nel 2007 un documentario tedesco, “The Silence of the Quandts”, fa luce sulle enormi responsabilità che i Quandt avevano ricoperto nel programma di sfruttamento dei deportati: gli uomini erano costretti a maneggiare metalli pesanti e tossici senza alcun equipaggiamento protettivo. Secondo l’inchiesta “i Quandt utilizzarono anche lavoratori schiavi dei campi di concentramento in almeno tre delle loro fabbriche, ad Hannover, Berlino e Vienna. Centinaia di questi lavoratori morirono. Le condizioni di lavoro erano spaventose, soprattutto nelle fabbriche di batterie […] L'azienda [Afa] utilizzava lavoratrici schiave, comprese donne polacche che erano state trasferite da Auschwitz”.
Nel 1946 Günther fu arrestato dalle autorità alleate, in particolare in virtù dei suoi legami personali con Goebbels - i rapporti con la ex moglie e con il nuovo marito di lei erano rimasti buoni. Tuttavia, poca luce fu fatta sulle connessioni esistenti tra le sue fabbriche e il programma di sterminio messo in atto dalle autorità naziste. Fu rilasciato meno di due anni dopo, nel gennaio del 1948, dopo essere stato giudicato mitläufer, cioè non accusato di crimini nazisti ma coinvolto con il Partito nazista. Morì nel 1954 durante una vacanza al Cairo, in Egitto.
Dopo la morte, il suo impero passò nelle mani dei figli Herbert e Harald. I due, in realtà, erano fratellastri. Il primo nato dal matrimonio tra Günther e Antoine Ewald, morta di febbre spagnola nel 1918, il secondo dall’unione con Magda Ritschel. E fu proprio Harald l’anello di congiunzione tra le famiglie Quandt e Goebbels, un figlio che incarnava la fede al nazismo e la devozione per il Reich. Harald ebbe fortuna: sopravvisse alla guerra e scontò tre anni di prigionia a Bengasi, ereditando, poi, un colosso di circa duecento aziende, con una ricchezza astronomica, ottenuta anche grazie allo sfruttamento dei lavoratori schiavi. I cambiamenti internazionali del 1948, l’inizio della Guerra Fredda, e la tensione crescente tra due mondi sempre più divisi, convinsero gli Alleati occidentali ad accantonare la lotta contro il nazismo e a favorire la crescita della parte occidentale della Germania. Fu una manna dal cielo per tanti industriali tedeschi e lo fu per i Quandt. Come scrive Federico Ferrero su “Il Corriere della sera”, Harald “aveva ulteriormente allargato le maglie dell’impero Quandt: partecipazioni pesanti nella Daimler-Benz, una quota notevole in Bmw comprata nel 1960: a metà degli anni Sessanta, Harald Quandt era azionista di centinaia di società e contava cariche dirigenziali attive in quasi trenta. A quarantacinque anni, figurava nella lista dei miliardari in marchi e le cronache rassegnavano non solo delle sue operazioni finanziarie ma pure della sua fama da viveur”.
Comba Gambasca, Sanfront, 22 settembre 1967. Un’esplosione terribile sul versante della montagna sveglia alcuni margari. Il tempo statico, abitudinario di quel lembo silenzioso della Provincia di Cuneo è scosso improvvisamente. Un aereo precipita e si avvolge in una voragine di fuoco. Sei le vittime, tutti tedeschi. Uno di essi è un grande industriale, capostipite di una famiglia che ancora oggi possiede una ricchezza valutata di circa 35 miliardi di dollari. Harald Quandt muore tra quelle montagne in cui i suoi commilitoni della Luftwaffe 23 anni prima avevano incendiato borgate, ucciso contadini inermi e depredato le poche ricchezze di una terra già così austera. Il suo ultimo viaggio finisce lì e mai sarebbe arrivato in Costa Azzurra, dove era diretto: bella vita, sfilate e lusso si volatilizzano. Il suo corpo segue quello della madre, anch’esso bruciato per non essere riconoscibile ai russi, che premevano alle porte di Berlino. Un’ala dell’aereo riposa oggi nella cappella di San Bernardo di Sanfront, un filo che lega la Valle Po alla grande storia del mondo.