Ѐ il tardo pomeriggio del 15 settembre 1896 quando in un palazzone di Savigliano, sulla strada per Marene, si affrontano in singolar tenzone l’avvocato Attilio Vinardi, direttore della Gazzetta di Savigliano, e il tenente Alessandro Zemos del 17esimo reggimento di cavalleria “Caserta”.
I duellanti sono accompagnati dai rispettivi padrini: per il giornalista il cavalier Calieri, direttore dei periodici torinesi Il Fischietto e La Luna, e il signor Sapelli, redattore di entrambi i giornali. Per l’ufficiale, i tenenti Gelmi e Guiscaroli. Alle ore 18 risuona il comando “a loro!” e i contendenti incrociano le lame. La cronaca dell’evento è affidata alle parole di Jacopo Gelli, autore di un prezioso compendio su I duelli mortali del secolo XIX: “Si prescelse la sciabola, senza esclusione di colpi, alla condizione che il combattimento cesserebbe, allorquando i medici dichiarassero che uno dei duellanti fosse impossibilitato a proseguire nella lotta”. La sfida si mostra da subito cruenta: “I due avversari si attaccarono con estrema violenza; ma nel primo assalto ambedue restarono illesi. Alla terza messa in guardia, con l’attacco non meno violento dei precedenti, il tenente Zemos ricevette la punta avversaria al costato sinistro e stramazzò esanime al suolo. L’arma avversaria lo aveva trafitto da una parte all’altra, squarciandogli il cuore”.
Il colonnello Gelli, artefice di un noto Codice cavalleresco e tenace oppositore dell’istituto del duello, deplora senza mezzi termini il fatto che “i quattro padrini affermarono che i duellanti si erano comportati secondo le più rigorose norme della cavalleria!”. Ma quale offesa aveva provocato il cruento fatto di sangue, immortalato dalla copertina che La Tribuna Illustrata di domenica 27 settembre 1896 dedicherà al “tragico duello di Savigliano”? L’antefatto risale al gennaio dello stesso anno, quando - in seguito ad attriti sorti tra la popolazione saviglianese e gli ufficiali del reggimento di stanza in città - il Vinardi aveva inviato una breve corrispondenza a un giornale satirico di Torino, La Luna. Il direttore non aveva ritenuto opportuno pubblicare il pezzo del suo corrispondente e lo aveva accantonato, forse con l’intento di restituirlo in seguito all’autore. Senonché ai primi di settembre, in assenza del direttore, lo scritto era capitato fra le mani di uno dei redattori del foglio, il quale lo aveva pubblicato all’insaputa - almeno pare - dello stesso Vinardi, che non ricordava più di avere inviato la corrispondenza incriminata.
L’articolo conteneva qualche allusione al tenente Zemos, un giovane ufficiale di 33 anni, originario di Courmayeur in valle d’Aosta, che si era guadagnato le spalline partendo da soldato semplice. Ritenendosi offeso, il tenente mandò a sfidare il direttore della Luna il quale rispose di essere pronto ad accettare il duello qualora Vinardi avesse declinato la responsabilità dell’articolo. Ma questi si dichiarò prontissimo a dare soddisfazione al suo sfidante, finendo per ucciderlo: “La sera stessa - annota Gelli - mentre l’avvocato Vinardi guadagnava la frontiera, la salma dell’infelice Zemos entrava nell’ospedale militare, suscitando immensa, penosissima compassione”. Del giornalista, fuggito in un primo tempo in Spagna, si sa che morì in terra francese diciassette anni dopo, nel 1913. Nel frattempo per un altro fra i numerosi trafiletti nei quali attaccava la guarnigione militare di Savigliano era stato condannato su denuncia di un certo avvocato Biancotti-Sassini, notaio genovese e ufficiale di complemento del reggimento di cavalleria “Caserta”. Il tribunale di Saluzzo lo sanzionò per ingiuria e diffamazione con la pena di 10 mesi di carcere e 883 lire di multa. La condanna venne poi aumentata a 18 mesi di reclusione e 1500 lire di multa dalla Corte d’appello.
Ne uccide più la penna che la spada: il “duello giornalistico” tra Ottocento e Novecento
A fronteggiarsi nella disfida saviglianese sono come si è detto un militare e un giornalista, ovvero i rappresentanti delle due categorie che erano più propense in quell’epoca a far scorrere il sangue per un’offesa - vera o presunta. A testimoniarlo è proprio Gelli, un’autorità assoluta nel campo: “Per convincersene - scrive nella prefazione del suo volume, edito nel 1899 - basta dare un’occhiata alla statistica del duello che da oltre venti anni redigo e si rivelerà che le cause presunte degli scontri sono da attribuirsi prima alle polemiche giornalistiche, poi ai diverbi, poscia alle dispute politiche, quasi che il buon governo di uno Stato si trovasse concentrato sulla acuminata punta di una spada, o sul taglio bene affilato di una sciabola”.
La sua impressione in effetti è ben confermata dalle cronache che in quegli stessi anni - com’è ricordato nel recente Foco grosso. Memorie patrie di armi, uscito per Altaforte a cura dell’Accademia Liverziani - vedono il 22enne Gabriele d’Annunzio sfidare il direttore del giornale Gli Abruzzi, Carlo Magnico, il quale lo aveva definito “il piccolo Gargantua della poesia italiana” in un pezzo del 27 settembre 1885. Il duello finisce con un colpo di sciabola in testa per il futuro Vate, col quale comunque Magnico si sentirà in dovere di scusarsi. Nell’arco della sua carriera letteraria, d’Annunzio raccoglierà ben cinquanta sfide e dieci duelli.
Per una recensione maliziosa il 5 febbraio 1897, nemmeno cinque mesi dopo i fatti di Savigliano, Marcel Proust sfida il giornalista Jean Lorrain: i due si scambiano un paio di colpi di pistola alla distanza di venticinque metri. George Painter, biografo del celebre autore della Recherche, sostiene che lo fecero “probabilmente, come volevano le buone maniere quando non era in gioco una questione di estrema gravità, sparando in aria”. Ben altro esito il 6 marzo di quello stesso anno ha la contesa alla sciabola tra il drammaturgo e deputato di estrema sinistra Felice Cavallotti e il parlamentare liberalconservatore Ferruccio Macola, direttore della Gazzetta di Venezia: Cavallotti muore trafitto da un colpo alla carotide, mentre Macola, finito ai margini della vita sociale e politica, si suiciderà nel 1910.
Ancora in quel terribile 1897, il 15 agosto, un articolo di giornale uscito sul quotidiano francese Le Figaro suscita lo sdegno del generale Vittorio Emanuele di Savoia, conte di Torino, contro il duca Enrico Filippo Maria d'Orléans, reo di aver denigrato nella sua corrispondenza il valore dei soldati italiani ad Adua. A Vaucresson, presso Versailles, il Savoia ferisce all’addome il suo avversario e riscatta l’onore del Regio Esercito dopo ventisei minuti di furiosa lotta, che verrà celebrata perfino da Giovanni Pascoli.
L’abitudine a ferire di spada laddove ci si riteneva offesi dalla penna prosegue anche nei primi decenni del nuovo secolo. Un duellatore infaticabile è il sanguigno ex direttore dell’Avanti!, Benito Mussolini, che il 29 marzo 1915 dopo essere stato cacciato dal giornale socialista sfida il suo predecessore Claudio Treves: il combattimento, violentissimo, si svolge alla Bicocca di Niguarda a Milano e dura venticinque minuti. Il futuro duce sfiderà diversi altri protagonisti della vita culturale italiana di inizio Novecento, tra cui il giornalista Francesco Ciccotti Scozzese, definito da Mussolini “lercio basilisco”, l’allora direttore de Il Secolo Mario Missiroli che aveva apostrofato come “il perfido gesuito”, il promotore del Congresso nazionale anarchico Libero Merlino e addirittura il suo maestro di scherma, Vittorino Maselli, al cospetto di Hitler e dello stato maggiore dell’esercito durante l’inaugurazione della Nuova Accademia di Scherma.
Ancora nel 1926, precisamente il 9 agosto, si affrontano armi in pugno due straordinari intellettuali come Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli. Il poeta reduce del Carso e il drammaturgo fondatore del realismo magico erano venuti ai ferri corti, manco a dirlo, a causa di una polemica giornalistica nata sulle colonne del quotidiano romano Il Tevere, dove i due si erano accusati reciprocamente di “maldicenze letterarie”. A ospitare la tenzone nel giardino della sua villa fu nientemeno che Luigi Pirandello.
Su quella piaga che è ai suoi occhi il “duello giornalistico” il Gelli aveva speso parole assennate che ancora oggi gli esponenti della categoria e i commentatori più esagitati dei social farebbero bene a tenere presenti: “Nell’esercizio indipendente ed imparziale (!!!) di un ufficio, che è sindacato continuo di tutto quanto accade giornalmente nella vita pubblica di un paese è facile, anzi facilissimo, che la critica e la censura, per quanto aliene da personalità, abbiano da incappare nella suscettività più o meno legittima di questo o di quel cittadino. Il quale crede, o almeno finge di crederlo, che sfidando a duello l’articolista o il direttore del giornale, la ragione a lui venga col treno lampo o per telegrafo, anche quando ha torto”. Ma se il giornalista, prosegue lo storico, “coscienziosamente ha adempiuto al proprio ufficio, denunciando all’opinione pubblica un errore, o un abuso, senza scopo di scandalo, senza l’impulso di personale malevolenza, perché accetta, invece di respingerla, la provocazione cavalleresca? O non s’accorge che, accettando, riconosce implicitamente nel privato cittadino la facoltà di menomare la libertà di stampa e di discussione?”.
Il ragionamento si conclude, vale la pena di dirlo, con un’autentica stoccata: “Contro questa morbosità manesca il giornalista onesto dovrebbe apporre una forte resistenza, sicuro che troverebbe nell’opinione pubblica un sufficiente presidio per la difesa della sua onorabilità e della sua reputazione. E se oggi questo presidio al giornalista manca; gli fa difetto, perché egli è troppo proclivo a dare parvenza di verità a calunniose dicerie, per attirare l’attenzione pubblica sul foglio suo”.