Alessandra Maria Antonietta Livia Starabba di Rudinì. Un nome che molto probabilmente non dirà molto a chi si appresta a leggere queste righe, a meno che non si tratti di Giordano Bruno Guerri, o di un altro studioso della vita e delle opere di Gabriele D’Annunzio. Eppure l’esistenza di questa donna, iniziata trascorrendo le estati dell’infanzia nella tranquilla Beinette, è stata quantomeno avventurosa: passata dai salotti dell’alta società ottocentesca a un ascetico convento francese, dove diventò suor Maria di Gesù. Senza tralasciare una burrascosa relazione con il “Vate d’Italia”. Per capire il nesso tra tutti questi elementi, a patto che non abbiate già contezza di questa vicenda, non vi resta che proseguire nella lettura.
Alessandra nacque a Napoli il 5 ottobre 1876. Figlia di Antonio Starabba - marchese di Rudinì, esponente della Destra di Sonnino e di Minghetti che per due volte fu primo ministro - e della contessa di origini francesi Maria de Barral, ricevette un’educazione cattolica, ma dette ben presto prova del suo carattere irrequieto. Mandata a studiare a Roma, al Collegio del Sacro Cuore di Trinità dei Monti, venne espulsa per una serie di eccessi, come quando fu sorpresa a versare inchiostro in un’acquasantiera, riservando alla suore una compieta “colorata”.
Più tranquille le estati, che Alessandra passava con il fratello Carlo e la madre a Beinette. Maria aveva ereditato dal padre - il “conte generale” Carlo Emanuele de Barral - un ingente patrimonio nei dintorni di Cuneo: terreni, case, mulini, una filanda, diritti d’acqua e addirittura un castello. Le prime tracce di quello che oggi si presenta come un massiccio palazzone nei pressi della piazza principale del paese risalgono al XI secolo. Fu modificato a partire dal 1741 dall’ingegnere Carlo Antonio Castelli per volere dell’allora proprietario Carlo Francesco Ferrero, marchese di Ormea. Oggi versa in stato di abbandono, ma all’epoca era un’appariscente dimora signorile. La marchesa Maria era molto legata all’edificio da bambina e continuò a esserlo in età adulta, quando vi si recava accompagnata dai figli e dalla servitù. La famiglia alternava i soggiorni nel Cuneese con quelli nelle proprietà siciliane di Pachino e Marzamemi. Solo il padre, preso dagli affari di Stato, vi passava di rado.
A soli 15 anni Alessandra era già donna: alta più di un metro e ottanta e di bell’aspetto. Aveva folti capelli biondi, occhi azzurri. Era colta e di carattere determinato. Nel 1894, quando di anni ne aveva 18, convolò a nozze con il marchese Marcello Carlotti di Verona. Un matrimonio d’amore, in contrasto con la volontà del padre, che sognava di vederla al fianco di qualche principe europeo. Il presidente del Consiglio pensò addirittura a un matrimonio con il granduca Sergio, della famiglia dello zar di Russia, ma la giovane non ne voler sapere, tanto più perché avrebbe dovuto rinunciare alla sua fede cattolica per farsi ortodossa.
Dal marchese Carlotti Alessandra ebbe due figli: Antonio e Andrea. La sua vita scorreva felice in una villa sul lago di Garda, quando ricevette una notizia funesta: la madre Maria era morta nel suo castello di Beinette. Era l’11 febbraio 1896. Nel testamento la contessa lasciò alla figlia il maniero e tutte le proprietà beinettesi. Quattro anni dopo, nel 1900, Alessandra subì un altro lutto: il marito morì di tisi, lasciandola vedova a 24 anni. Forse sono state le tragedie a risvegliare la sua voglia di avventura, sta di fatto che riprese a cavalcare e ad andare a caccia, sue passioni dell’adolescenza.
In questa fase Gabriele D’Annunzio fece il suo ingresso nella vita di Alessandra. La donna conobbe il Vate nel 1903: al matrimonio del fratello Carlo, il poeta era testimone di nozze. Com’è noto il letterato pescarese non era certo un adone, tant’è che una cortigiana della Belle Époque, al secolo Liane de Pougy, lo definì “uno gnomo spaventoso con gli occhi cerchiati di rosso, senza capelli, con denti verdastri, l’alito cattivo e le maniere di un ciarlatano”. Eppure piaceva. Certo il fascino del Vate si basava più su carisma e dialettica che sull’aspetto fisico. Di lui la ballerina Isadora Duncan disse: “Era un così grande amante che poteva trasformare la donna più ordinaria e darle per un momento l’apparenza di un essere celeste”. Non ci dilunghiamo sull’appetito sessuale del poeta guerriero, ma approfittiamo dell’occasione per ribadire che, nonostante la vita chiacchierata, la storia secondo la quale si sarebbe fatto togliere due costole per praticarsi da solo la fellatio è una bufala.
Torniamo ai due amanti. La relazione iniziò a Milano e proseguì con incontri e messaggi via telegrafo. Una volta Gabriele scrisse alla sua amata, che chiamava “Nikè”: “Se potesse volare sarebbe già da tempo sulle colonne verdi”. Un luogo al di là del tempo e dello spazio? Macché! Le “colonne verdi” non erano altro che quelle del letto di D’Annunzio alla villa La Capponcina, a Settignano, nel comune di Firenze. Piccolo dettaglio: la dimora è nota per essere stata il teatro della relazione del poeta con la famosissima attrice teatrale Eleonora Duse, forse l’amore dannunziano più celebre, che ispirò il romanzo “Il fuoco” e la raccolta poetica “Alcyone”. Incredibilmente Alessandra si accorse solo qualche mese della presenza della “Divina” - così era soprannominata l’attrice - nella vita del suo amante, ma non se ne curò troppo. In una lettera scrisse: “(…) Ho pensato che non so nulla della tua vita, tranne che hai amato, o almeno hai dato l’illusione dell’amore a molte e molte donne, e forse con le medesime parole, con quegli atti che mi hanno preso l’anima. Io ti ho amato Ariel (così lo chiamava nell’intimità, altro che un banale ‘cucciolotto’ o ‘tesorino’ n.d.r.) appena ti ho veduto, mi sono data a te con gioia e sei il mio unico amore”. E via con una richiesta di vedersi. Da cosa nasce cosa e D’Annunzio si infatuò della bellezza della giovane vedova, che aveva diciotto anni in meno della Duse - e tredici meno di lui. La fine del rapporto tra d’Annunzio ed Eleonora avvenne proprio a causa del ritrovamento di una forcina dorata nel lettone delle “colonne verdi”, che abbiamo imparato a conoscere. Disperata, la Duse scrisse: “Allora ti dico addio. Mi hai accoppata”. Così lasciò il Vate al suo destino, anche se rimarrà una presenza costante nella sua vita e nelle sue opere.
Con la Duse fuori gioco, Alessandra di Rudinì andò a vivere alla Capponcina dal suo Ariel. La loro relazione fu passionale e caratterizzata da un uso piuttosto disinvolto del denaro. D’Annunzio era un noto dissipatore di patrimoni e la sua compagna dell’epoca non era da meno. Tant’è che per sostenere il rapporto con il letterato vendette all’avvocato Oddo Tabacchi di Milano tutti i suoi possedimenti di Beinette, con buona pace della memoria della madre. Alessandra disse a un amico: “Non so che cosa eventualmente si dirà del mio affetto per Gabriele, perché eccetto che dal lato legale, il nostro amore è stato un modello di virtù”.
A partire dal 1905 Alessandra si ammalò gravemente e fu operata per tre volte. Gabriele le stette vicino durante i periodi più critici in ospedale e, una volta che la donna guarì, pensò anche al matrimonio. A questo scopo provò a ottenere (senza successo) il divorzio dalla sua prima moglie, Maria Hardouin. Il poeta le dedicò una pagina delle “Faville del maglio” e il poemetto “Solus ad solam”. Ma lentamente due ombre calarono inesorabilmente sulla loro relazione: da una parte le solite “distrazioni” di D’Annunzio, dall’altra la dipendenza dalla droga della Rudinì. Durante il periodo in ospedale la donna era diventata dipendente dalla morfina e continuò a farne uso smodato anche una volta guarita. Forse non solo per alleviare le sofferenze fisiche, ma per lenire il dolore della scoperta che il suo amante era ora innamorato di un’altra donna: la contessa Giuseppina Mancini, alla quale Gabriele confidò la dipendenza della compagna. Qui ci viene in soccorso un altro noto personaggio che ha avuto legami con Cuneo - sebbene vi sia passato una volta sola per acquistare un pacchetto di cuneesi da Arione. Stiamo parlando dello scrittore statunitense Ernest Hemingway. In una sua poesia definì D’Annunzio, senza mezzi termini, “un figlio di puttana”. Pur senza mettere in dubbio la moralità della madre del Vate, almeno in questa circostanza, è difficile dargli torto.
La storia tra Nikè e Ariel si spense rapidamente e lei ripartì grazie alla fede in Dio. Dopo aver vinto la dipendenza dalla droga e affidati i due figli alle cure dell’abate francese Gorel, su suggerimento di quest'ultimo si recò fino a Lourdes alla guida della sua auto, per guarire definitivamente i mali dell’anima. Dopo la trasferta scrisse ancora a D'Annunzio, nel frattempo riparato in Francia in fuga dai debiti, ma la fede l’aveva definitamente trasformata. Al ritorno sulle rive del lago di Garda visse indossando un semplice saio, leggendo e scrivendo opere religiose e iniziò a coltivare l'idea di diventare una suora carmelitana. Nonostante i tentativi del fratello di dissuaderla ricordandole i suoi doveri di madre, Alessandra fu irremovibile. Una volta deciso di prendere il velo scelse un convento francese, il Carmelo di Paray-le-Monial, in Borgogna.
Vi entrò clandestinamente con il nome di suor Maria di Gesù, ma senza dimenticare il suo passato. Prima di pronunciare i voti, nell’ottobre 1911, scrisse per l’ultima volta a Gabriele D’Annunzio dichiarandosi a lui “sempre devota”. La sua vita religiosa non si discostò troppo dalla precedente, tra luci e ombre: da un lato si distinse per il fervore nella preghiera e nelle opere di bene, e dall’altro per le stravaganze. Spesso infranse le regole, specie dopo la scomparsa del fratello, morto suicida in un albergo di Roma nel 1915. Allora entrò in possesso dell’ingente patrimonio di famiglia (il padre era deceduto nel 1908 n.d.r.). Divenuta superiora devolse le sue finanze alla realizzazione di una cappella nel Carmelo di Paray, altre ancora ne fece costruire a Valencienne e sui Pirenei. Destò stupore, in tanta misericordia, la totale noncuranza con la quale seguì la nefasta sorte dei figli: morirono entrambi di malattia fra il 1916 e il 1917, dopo aver trascorso lunghi soggiorni in sanatorio, senza mai più riabbracciare la madre. Vero è che anche la salute di Alessandra non era delle migliori, in quanto la malattia aveva lasciato strascichi, ma ciò non le impedì di tornare in Italia per occuparsi del patrimonio, infischiandosene della sfortunata prole.
Finì i suoi giorni a 55 anni, nell’inverno del 1931, quando in una fredda mattinata si recò, per desiderio del vescovo di Chambéry, in un vecchio castello situato in montagna, per valutare la fondazione di un nuovo convento. Narra Tom Antognini ne “La Vita segreta di Gabriele D’Annunzio”: “(…) Sorpresa da una tormenta e colta da un’improvvisa congestione, si accasciò sulla neve e morì vittima della sua fede e del suo dovere”.
Forse eccedettero quelli che, alla morte, ne chiesero la beatificazione così come coloro che, in vita, l’avevano paragonata a Messalina, moglie dell’imperatore romano Claudio, passata alla storia come donna dissoluta e depravata. Di certo, al di là dei giudizi morali, la sua storia merita di essere ricordata e raccontata, così come il castello di Beinette, in cui Alessandra visse, meriterebbe di essere valorizzato.