GARESSIO - Maria Clotilde di Savoia, il Castello di Casotto e l'estate che cambiò la storia d'Italia

Nelle vicende del Risorgimento italiano trova spazio anche quella di "Chechina", primogenita del Re Vittorio Emanuele II che si sacrificò per la ragione di Stato

Maria Clotilde di Savoia
Il Castello di Casotto
Un ritratto di Maria Clotilde conservato al Castello di Casotto
La targa dedicata a Maria Clotilde all'ingresso del Castello di Casotto

Andrea Dalmasso 08/12/2021 10:15

Quella del 1858 per Maria Clotilde di Savoia avrebbe dovuto essere un’estate come tutte le altre, trascorsa immergendosi nella pace del Castello di Casotto. Per la sua famiglia quella ex Certosa, acquistata da Carlo Alberto nel 1837, era una residenza ideale in cui trascorrere i mesi estivi, anche e soprattutto per gli effetti benefici che l’aria salubre di quelle montagne ai confini tra Piemonte e Liguria aveva su Oddone, fratello minore di Maria Clotilde, nato con una grave malattia genetica. Nata nel 1843, primogenita di Vittorio Emanuele II e Maria Adelaide d’Asburgo Lorena, “Chechina” - com’era affettuosamente soprannominata - aveva manifestato fin dai suoi primi anni di vita un carattere mansueto e una profondissima fede cattolica: la sua vita sarebbe stata interamente dedicata a Dio, questa era la sua ferma intenzione. In quell’estate del 1858 però, mentre Maria Clotilde trascorreva ignara giornate identiche a tante altre, a oltre 600 chilometri di distanza da Valcasotto venne presa una decisione che cambiò drasticamente la sua esistenza, oltre che la storia d’Italia.
 
In Francia, infatti, Camillo Benso stava stringendo con l’imperatore francese Napoleone III i celebri Accordi di Plombières, dal nome della località nell’odierno dipartimento dei Vosgi nella quale avvenne l’incontro del 21 luglio. In quel periodo, in pieno Risorgimento, il conte di Cavour gestiva abilmente le trame diplomatiche del Regno di Sardegna, dal quale meno di tre anni dopo sarebbe nata l’Italia unita: sondato l’interesse francese verso la causa risorgimentale italiana, iniziò a lavorare per formare un’alleanza, che venne formalizzata con l’intesa (verbale e segreta) dell’estate 1858. Napoleone III chiedeva la cessione di Nizza e della Savoia in cambio del suo aiuto in vista di quella che sarebbe poi passata alla storia come la Seconda Guerra d’Indipendenza italiana. Per rendere l’alleanza più stabile, però, serviva un passo in più: era necessario un matrimonio tra Girolamo Bonaparte, cugino dell’imperatore, e una principessa di casa Savoia. La scelta cadde su Clotilde, all’epoca appena quindicenne. Per lei si sarebbe trattato, com’è facile intuire, di un sacrificio enorme (benchè vada specificato come un matrimonio di questo genere non sia di certo un caso isolato quando si parla di nozze regali). Girolamo, nato nel 1822, aveva 21 anni in più di “Chechina”, e inoltre conduceva una vita dai valori lontanissimi dai suoi: libertino, donnaiolo, per niente devoto, nutriva al contrario un forte fastidio nei confronti di tutto ciò che aveva a che fare con la Chiesa. Secondo gli storici Napoleone III non fece delle nozze una “conditio sine qua non” ufficiale per il rispetto degli accordi, ma Cavour intuì che un rifiuto avrebbe probabilmente compromesso le speranze di ricevere dalla Francia il sostegno promesso e necessario per condurre l’imminente guerra.
 
Rientrato da Plombières, il primo ministro informò il re Vittorio Emanuele II dei negoziati con l’imperatore francese, affidandogli il compito di comunicare alla figlia quanto deciso. Il Re si mostrò estremamente contrariato (“Quello è matto!”, si dice abbia esclamato riferendosi a Camillo Benso), ma decise infine di lasciare alla figlia la scelta. Maria Clotilde si trovava proprio nell’amato Castello di Casotto quando ricevette la notizia che le avrebbe sconvolto la vita. E sempre nelle montagne sopra Garessio si trovava quando scrisse una lettera indirizzata a Cavour, nella quale con la sua consueta gentilezza manifestò la sua opposizione alle nozze, pur consapevole del significato politico che queste avrebbero avuto. Era il 12 agosto 1858 quando “Chechina” scrisse queste parole: “Ho già molto pensato, ma è una cosa molto seria il mio matrimonio col Principe Napoleone e che soprattutto è del tutto contraria alle mie idee. Io so anche, caro Conte, che esso potrebbe essere vantaggioso all'avvenire di una nazione come la nostra e soprattutto al Re mio Padre. Ci penserò ancora e spero che il Signore vorrà guidarmi col suo infallibile aiuto; io rimetto tutto nelle sue mani per ora e non posso decidere nulla”. Maria Clotilde passò così l’intero mese di agosto nel Castello di Casotto, meditando sul da farsi, in bilico tra il desiderio di seguire la sua fede e quello di servire la sua famiglia e il suo Regno: a settembre fece rientro a Racconigi, e qui giunse ad una decisione definitiva scegliendo di dare il suo consenso al matrimonio. Per quanto quella scelta l’avrebbe condannata ad una vita infelice, “Chechina” tenne sempre a specificare di non essere stata costretta o forzata da nessuno, ma di aver preso quella decisione per assecondare le esigenze della patria e “la volontà di Dio”: “L'ho sposato, il principe, perché l'ho voluto io”.
 
La primogenita del Re pose una sola condizione: avrebbe voluto incontrare il promesso sposo almeno una volta prima delle nozze. L’incontro ebbe luogo a Torino il 16 gennaio 1859: sciolte le ultime riserve, Maria Clotilde acconsentì a rendere ufficiale il matrimonio. L’annuncio scatenò vibranti proteste nell’ambiente della corte torinese: di fatto la vita di una quindicenne stava per essere sacrificata per soddisfare le trame politiche di chi governava il Regno. Nonostante questo, il 23 gennaio la richiesta ufficiale di nozze fu formulata a Vittorio Emanuele II, mentre il 28 gli accordi di Plombières furono verbalizzati in un incontro tra il Re, l’imperatore di Francia e Girolamo. Il matrimonio fu celebrato domenica 30 gennaio 1859 nella cappella reale della Sacra Sindone di Torino: Maria Clotilde rinunciava così formalmente alla corona. Il giorno stesso i neo sposi raggiunsero Genova, dove assistettero tra l’entusiasmo della folla ad uno spettacolo al Teatro Carlo Felice. Dopo due giorni salparono in direzione Marsiglia, da dove avrebbero poi proseguito verso Parigi. Il 3 febbraio la coppia fece il proprio ingresso a corte: ad accoglierli, tra gli altri, l’imperatore Napoleone III e l’imperatrice Eugenia. Dopo pochi mesi le conseguenze dell’accordo si manifestarono: la campagna militare franco-piemontese contro l’Austria fu vittoriosa, e i sovrani dei due regni entrarono trionfalmente a Milano.
 
Per “Chechina”, come facilmente prevedibile, l’adattamento alla nuova vita non fu facile: a quindici anni si era ritrovata catapultata in una realtà, quella della sfarzosa corte parigina, che poco aveva a che fare con i suoi ideali cristiani e il suo spirito religioso, e in più c’era la freddezza con cui la popolazione la accolse. Proprio la profonda fede, però, le permise di andare avanti e di adeguarsi alla sua nuova realtà: dopo la Messa quotidiana Maria Clotilde si recava ad assistere gli ammalati, mentre in casa sopportava con la preghiera la distanza di vedute con il marito, il quale solo raramente rompeva la solitudine della giovane donna, preferendo rimanere nei propri appartamenti (tradendola non di rado). La coppia ebbe comunque tre figli: Napoleone Vittorio, Luigi Giuseppe e Maria Letizia.
 
Una vita di sacrifici, quella di “Chechina”, che durò fino al 1870, con la caduta del Secondo Impero francese dopo la sconfitta di Napoleone a Sedan. Inizialmente Maria Clotilde decise di rimanere a Parigi, malgrado la città fosse in rivolta e nonostante le insistenze del padre che la invitava a tornare in patria. Gli rispose con una famosa lettera, che in qualche modo riassumeva tutta la sua vita, improntata al sacrificio e ai doveri di una principessa di Casa Savoia: “L'assicuro che non è il momento per me di partire. La mia partenza farebbe il più pessimo e deplorevole effetto. Non ho la minima paura: non capisco nemmeno ch'io possa aver paura. Di che? E perché? Il mio dovere è il rimanere qui tanto che lo potrò, dovessi io restarci e morirci: non si può sfuggire davanti al pericolo. Quando mi sono maritata, quantunque giovane, sapevo cosa facevo, e se l'ho fatto è perché l'ho voluto. Il bene di mio marito, dei miei ragazzi, del mio Paese è ch'io rimanga qui. L'onore persino del mio nome; l'onor suo, caro Papà, se così posso esprimermi, l'onore della mia Patria nativa. Tutto questo glie lo dico, dopo aver riflettuto molto. Lei mi conosce, caro Papà, nulla mi farà mancare al mio dovere. E ci mancherei se io partissi in questo momento. Non tengo al mondo, alle ricchezze, alla posizione che ho; non ci ho mai tenuto, caro Papà, ma tengo ad adempiere, sino alla fine, il mio dovere. Quando non potrò più far diverso, partirò. Lei non partirebbe, i fratelli non partirebbero. Non sono una Principessa di Casa Savoia per niente! Si ricorda cosa si dice dei Principi che lasciano il loro Paese? Partire, quando il Paese è in pericolo, è il disonore e l'onta per sempre. Se parto, non abbiamo più che da nasconderci. Nei momenti gravi bisogna avere energia e coraggio; li ho, il Signore me l'ha dati e me li dà. Mi scusi, caro Papà, se forse le parlo troppo liberamente, ma mi è impossibile di non dirle ciò che sento, ciò che ho in cuore. Sia convinto che Mammà mi approva dal cielo”.
 
Fuggiti tutti i Bonaparte e proclamata la Repubblica, Maria Clotilde di Savoia avrebbe poi lasciato Parigi per ultima, da sola, il 5 settembre in pieno giorno, percorrendo le strade con la sua carrozza scoperta e le sue insegne: “Peur et Savoie ne se sont jamais rencontrées” (“La paura e i Savoia non si sono mai incontrati”) commentò lei a questo proposito. Riparò con la famiglia nel castello di Prangins, sul lago di Ginevra. Abbandonata dal marito, tornato in Francia per tentare di riprendere il potere, negli anni successivi si dedicò completamente alla vita religiosa, entrando a far parte del Terz’Ordine di San Domenico con il nome di “Suor Caterina del Sacro Cuore”. Nel 1878 lasciò Prangins tornando in Italia, stabilendosi nel castello di Moncalieri e dedicandosi alla vita monastica, al conforto dei deboli, dei bambini e dei poveri (venne presto soprannominata “la santa di Moncalieri”). Morì il 25 giugno 1911, fu sepolta nella basilica di Superga, insieme agli altri prìncipi e duchi di Savoia. Nella chiesa di Santa Maria a Moncalieri le fu dedicato un monumento, opera di Pietro Canonica, che la rappresenta inginocchiata in estasi mistica. Il 10 luglio 1942 fu introdotta la causa di beatificazione di Maria Clotilde da parte di Papa Pio XII, il quale dichiarò la principessa Serva di Dio (la causa di beatificazione della principessa è ancora aperta).
 
Oggi una targa la ricorda all’ingresso del Castello di Casotto, là dove nell’estate del 1858 si trovò a dover scegliere tra la sua felicità e la ragion di Stato: “In questo antico castello millenario convento certosino, nella gentilezza dei suoi 15 anni, la Principessa Maria Clotilde di Savoia si dispose al cosciente sacrificio di se stessa a vantaggio del proprio paese e per l’avvenire dell’Italia libera, unita, indipendente”. La targa fu posta il 16 luglio 1961, nel centenario dell’Unità d’Italia. Una volta fuggita da Parigi, Maria Clotilde non tornò mai più al Castello di Casotto: nel 1881 Umberto I vendette la residenza a privati.

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