“Sono qui in veste di marito dell’ultima presidente della Provincia di Cuneo eletta”: si presenta con una battuta Roberto Calderoli davanti alla platea cuneese, da ospite d’onore del convegno che Confindustria ha organizzato proprio per parlare dell’imminente riforma delle province.
Riforma che Calderoli si è preso a cuore fin dall’inizio del suo incarico come ministro degli affari regionali e delle autonomie: insieme all’altra - e più esplosiva - materia, l’autonomia differenziata, è il vero “core business” dell’azione politica sua e della Lega. Eppure oggi era la prima volta che si trovava a parlare di province: il disegno di legge all’esame del parlamento dovrà superare la legge Delrio del 2014, quella che in teoria doveva preludere all’abolizione dell’ente provincia. In teoria, perché il successivo referendum costituzionale del 2016 venne bocciato e non se ne fece nulla. Il risultato è stato una riforma monca, sconfessata anche da chi l’aveva voluta, che le province le ha mantenute ma ne ha tagliato i fondi. Con tutto quel che ne consegue, visto che la manutenzione di gran parte della rete stradale e degli edifici scolastici superiori compete tuttora a loro. E il risparmio promesso? La Corte dei Conti lo ha quantificato in 52 milioni: la miseria di 26 centesimi a cittadino. A fronte, per giunta, di uno sbilancio di comparto da oltre 840 milioni, soldi che le province chiedono al governo e che il governo ha promesso di versare, ma non ora.
“Inutile lamentarsi che ci sono le buche, perché non ci sono i soldi per coprire le buche” sintetizza Calderoli: “La democrazia ha un costo: ma se questo costo lo pago perché il soggetto che eroga la funzione è in grado di farlo, sono soldi spesi bene”. E allora perché abbiamo passato tanto tempo ad accapigliarci sull’abolizione delle province? Certo, dieci anni fa il clima era molto diverso. C’era l’onda del successo del libro La casta, c’erano gli strascichi di Rimborsopoli, c’erano le piazze di Grillo e di Renzi: “Una grande responsabilità negli attacchi alle province - dice Calderoli - non la do solo alla stampa, ma anche a Checco Zalone. Li ha alimentati con il suo film in cui impersonava un dipendente della provincia”. Ohibò: Quo vado? davanti al tribunale della storia.
Incursioni nella cinematografia a parte, ora c’è da occuparsi della riforma: l’obiettivo è ritrasformare la provincia da ente di secondo livello, cioè eletto dagli amministratori locali, in ente elettivo. Con un presidente, una giunta e un consiglio, proprio come prima. A cambiare saranno le modalità di elezione: per l’elezione al primo turno del presidente si richiederà almeno il 40% dei voti totali, altrimenti si andrà al ballottaggio. “Non è un esperimento, lo si è già applicato in Sicilia e ha funzionato” assicura il principale “sponsor” della nuova legge. Il meccanismo dovrebbe servire anche a dare più verve alla competizione: “A causa della disaffezione al voto che si manifesta soprattutto al secondo turno, molto spesso chi diventa sindaco prende meno voti di quelli che ha preso il candidato che ha perso al primo turno”.
A proposito di sindaci, che ne sarà di quelli che oggi assolvono le funzioni di presidente della provincia? Per Calderoli la questione non si pone: l’attuale organo è un ente di area vasta, mentre la futura provincia sarà “giuridicamente diversa”. Ergo, la decadenza è automatica: se qualcuno vuole fare ricorso, lo faccia. “Oggi - aggiunge il ministro - abbiamo presidenti di provincia che sono sindaci di piccolissimi paesi, quindi sono nella fascia più bassa degli stipendi come sindaci. Nel momento in cui vengono eletti presidenti, prendono uno stipendio tre o quattro volte superiore. Ciascuno è libero di difendere la propria busta paga, ma qui stiamo facendo un discorso generale”. Le resistenze sono molteplici, ammette l’esponente leghista: “Il centrosinistra attraverso questo sistema elettorale ha potuto esprimere un numero di presidenti della provincia maggiore rispetto a quando c’era l’elezione diretta, grazie al voto pesato che avvantaggia le metropoli”. E in maggioranza? Compatti, ma non proprio entusiasti: “In Fratelli d’Italia sono convinti della riforma, ma non così convinti di votare assieme alle europee”. E invece è proprio questo l’obiettivo per cui lui si batte, pur consapevole del fatto che i paletti sono stretti: approvare la riforma in tempo utile, dice, “è necessario per evitare i 225 milioni di spesa aggiuntiva che ci sarebbe in assenza di un election day”.
Dopo si potrà pensare al resto, e Calderoli ha anche in mente qualche idea: ad esempio il terzo mandato consecutivo per i sindaci dei comuni fino a 15mila abitanti, o l’abolizione dei limiti di mandato per i comuni sotto i mille abitanti (“lì fare il sindaco è come fare il missionario”, scherza). E poi il “riequilibrio” tra deputati e senatori: “Anche se sono stato tra quanti hanno votato la riduzione dei parlamentari, oggi dico che quel taglio è stato una sciocchezza. La cifra giusta sarebbe stata di 300 deputati e 300 senatori, perché l’elettorato è identico e le camere fanno esattamente le stesse cose. È una sfida che vorrei i legislatori si assumessero per il miglioramento delle istituzioni: non sempre tagliare è bene, qualche volta ci si fa male”.