Nel calcio dei grandi, così come in quello dilettantistico, ci sono storie che emozionano più di altre. Quella di Carlo Dutto alla Pro Dronero è una di queste. Diciassette anni insieme, 547 presenze e 221 gol realizzati. Una promozione in Eccellenza, due in serie D. Una miriade di emozioni, tante gioie, alcune delusioni. Compagni diventati amici per la vita e infiniti aneddoti, come la pizza e la birra prima della finale playoff di Trieste, per citarne uno. Poi, ad un certo punto, “arriva il momento di diventare grandi”. Che, nel caso di Carlo, significa appendere le scarpe al chiodo e intraprendere un nuovo percorso, sempre con i Draghi: sarà il secondo di mister Antonio Caridi.
Come è maturata queste decisione?
“Quando è il momento giusto lo capisci: mi sono reso conto di non poter più dare quello che avrei voluto, per questo ho deciso di smettere a Dronero. La mia idea era di continuare ancora, scendendo di categoria per ridurre un po’ l’impegno e poter essere ancora competitivo”.
Poi è arrivata la proposta della società...
“Mi ha spiazzato, ma ci ho messo poco ad accettare. Non avrei preso in considerazione qualcosa di simile da altre parti. Credo che potrò essere utile per la mia conoscenza dell’ambiente, anche per dare un segnale di continuità in una stagione di cambiamenti, e provare a fare capire a chi arriverà cos’è la Pro Dronero. Beccacini e Caridi sono la garanzia che si continuerà a puntare in alto. Ho grande stima del mister, ci conosciamo da anni e abbiamo condiviso i nostri anni migliori: con lui potrò imparare tanto, lo vedo come un tirocinio. E poi è sempre squalificato, quindi mi toccherà spesso fare il primo allenatore (ride, ndr)!”.
Come vivi l’addio al calcio giocato?
“È stato difficile, è stata la mia vita. Forse me ne renderò conto davvero quando inizierà la preparazione e magari sarà una scelta che rimpiangerò. Ma ad un certo punto bisogna anche diventare grandi. La mia è una scelta di cuore, ma che guarda anche al futuro”.
Non è che poi cambi idea, ti troviamo ancora in campo e questa intervista di addio al calcio giocato non varrà nulla?
“No, tranquillo (ride, ndr). Ho voluto mettere ogni cosa in chiaro, per evitare fraintendimenti sul mio ruolo. Poi nelle partitelle non mi tirerò indietro, naturalmente”.
Cosa ti mancherà di più?
“I miei riti scaramantici. Come l’antinfiammatorio di routine la domenica, ma quello forse sarà un bene. Il borsone preparato in un certo modo la sera prima. E poi il clima dello spogliatoio e la sofferenza in campo, insieme ai miei compagni”.
Proviamo a riavvolgere il nastro della tua storia alla Pro. Come la definiresti?
“La prima parola che mi viene è ‘inaspettata’. Ricordo ancora come tutto è iniziato. Devo ringraziare il mio amico Andrea Castellino. Io ero alle giovanili del Cuneo e tramite lui, che già giocava a Dronero, dopo una partita del torneo di Centallo ho incontrato l’allenatore Agnese. Chi poteva immaginare che sarebbe stata una storia lunga 17 anni, così bella e piena di successi? È stato un viaggio straordinario, in cui siamo cresciuti insieme, io e la Pro. Nessuno, a parte il presidente, avrebbe potuto immaginare che saremmo arrivati a certi livelli. Mi prendo un pezzettino di merito, da dividere con i compagni, i tecnici e la società. Abbiamo creato qualcosa di indescrivibile. Oggi Dronero è una realtà calcisticamente conosciuta”.
Come reti sei il migliore della storia della Pro Dronero, non ci sono dubbi. Ma come presenze?
“Non si sa bene, me la gioco con Sandro Agnese: lui ha fatto 18 stagioni, ma in quei tempi si disputavano meno partite. Però ci tengo anche a quel record, quindi se devo fare qualche partita in più, fatemi sapere, sono pronto!”.
Qual è stato il momento più bello di questi anni?
“Trieste. Quella promozione in D nel 2013 è stata qualcosa di irripetibile. Ti racconto una cosa: noi, dopo la prima fase dei playoff, pensavamo di essere già praticamente in D. Girava voce che molte squadre avrebbero rinunciato. In realtà non era vero. Noi siamo un po’ pazzi, e questo forse è stato il segreto. Abbiamo vissuto quelle settimane con una leggerezza ed una tranquillità, che credo abbiano fatto la differenza. Nessuno ci ha mai dato pressione. Con questo spirito abbiamo superato anche il turno con il Finale Ligure, poi il destino ha voluto regalarci la finale con una squadra storica come la Triestina”.
Ci racconti qualcosa che non sappiamo di quei giorni?
“Ti posso dire che è stata un’esperienza pazzesca, che però abbiamo vissuto quasi come se fosse una gita. La sera prima ci siamo mangiati una pizza, qualcuno anche due, bevendo birra, e c’era gente che girava per le camere dell’albergo fino a tardi. La domenica mattina, prima del pranzo pre-partita, qualche ragazzo è andato a farsi un aperitivo. L’abbiamo vissuta come la vivevamo noi, ed è stato uno dei segreti. Poi, ovviamente, avevamo una squadra davvero forte e abbiamo meritato quella vittoria”.
Della partita, cosa ricordi?
“Mi vengono i brividi a pensarci. C’erano 5-6 mila persone. C’è un’immagine che più di altre fa capire tutto e che non mi toglierò mai dalla testa. Eravamo in campo, l’arbitro stava per fischiare l’inizio. Mi sono girato verso la panchina e ho incrociato lo sguardo con Caridi: non si sentiva niente, c’era un’atmosfera incredibile. Gli ho fatto un gesto come a dire ‘ma dove siamo finiti?’. Forse non ci rendevamo neanche conto di cosa stavamo realizzando. Poi abbiamo fatto una gran partita, alla fine del primo tempo eravamo 3-0. Nell’intervallo il nostro massaggiatore Chillari già festeggiava! Nella ripresa loro hanno reagito, ci siamo spaventati, ma ce l’abbiamo fatta. Oltre a Trieste, c’è però anche un altro momento particolarmente bello: la vittoria del campionato nel 2018, forse sportivamente la soddisfazione maggiore. Vincere un campionato è una cosa difficilissima. Ci sentivamo imbattibili”.
C’è un rimpianto in questi 17 anni?
“Non essere riusciti a salvarci in serie D nelle due occasioni in cui siamo saliti. Ma ci confrontavamo con realtà di alto livello. Non era facile”.
Cosa ha significato essere capitano della Pro Dronero?
“Qualcosa che ti gratifica, ma che ti dà anche responsabilità. L’ho sempre vissuta così. Mi è servito per crescere: devi essere l’esempio, la guida, saper parlare e dire cose giuste”.
Cosa ci dici del tuo rapporto con Beccacini?
“C’è una stima reciproca infinita, non posso che parlare bene di lui. Persona corretta e di parola. È una di quelle figure che fanno bene al calcio. Se altri presidenti avessero la metà della sua passione, tutto il movimento ne gioverebbe. E quella passione te la trasmette. Quando veniva a parlare negli spogliatoi, dopo il suo discorso ci guardavamo e dicevamo: ‘Se mettiamo un po’ della voglia che ha lui, non perdiamo più una partita’. È unico a caricarti, a modo suo. Riesce a trasmettere un gran senso di appartenenza. Dronero è la sua vita: ci tiene talmente tanto che la domenica mattina va lui per primo al campo per pulire ed essere certo che sia tutto a posto. E poi ha tutti i numeri in testa, non sbaglia nulla, ed è anche molto simpatico. Quando sono arrivato a Dronero, lui era vicepresidente: siamo cresciuti insieme”.
Hai realizzato 221 gol. Te li ricordi tutti?
“No. Per queste statistiche devo dire grazie a mio papà. I miei non si sono mai persi una mia partita. A quale sono più legato? Quello contro l’Acqui nei playoff che poi ci hanno portato in D nel 2013”.
Il miglior compagno?
“Alessandro Brondino. Un amico, oltre che un compagno. Abbiamo vissuto tutto il bello di Dronero, anche fuori dal campo”.
Il più forte?
“Carlo Bruno. Ho una stima infinita di lui come persona, oltre a questo credo sia uno dei migliori prodotti che calcisticamente Cuneo abbia tirato fuori: ha fatto altre scelte, ma avrebbe potuto giocare tranquillamente in serie B”.
Il più simpatico?
“Di personaggi ce ne sono stati parecchi (ride, ndr). Però ti dico Cristian Turini. Io ero un giovane, lui un giocatore esperto e forte. In campo voleva sempre vincere, ma nello spogliatoio si divertiva, rideva e scherzava. Crescendo, ho cercato di essere anche io così: credo sia la maniera giusta di vivere il calcio, soprattutto ai nostri livelli”.
E Caridi?
“Quello che impressiona di lui è la calma che ha sempre. Una volta siamo arrivati a giocare una partita fondamentale in D ad un’ora dall’inizio, con il pranzo ancora sullo stomaco. Non si è mai agitato, anzi. Era il primo a fare battute e scherzare. Uno così ti mette serenità”.
Di’ la verità, quanti aneddoti avresti da raccontare?
“Si potrebbero scrivere dei libri! (ride, ndr). Però è bello che restino tra di noi. Sono cose che ci uniranno per sempre, se le racconti perdono un po’ di valore”.
Cosa c’è nel futuro di Carlo Dutto?
“Non so in che modo, ma voglio rimanere nell’ambiente calcistico. È il mio mondo, non possono togliermelo”.