CUNEO - “Fabio Miretti? Mai visto uno così”: parla il primo allenatore dell’enfant prodige juventino

Fabrizio Blengino allenò il saluzzese ai tempi del Cuneo, dove era arrivato a sei anni: “Era il più piccolo di tutti, ma aveva una determinazione incredibile”

Fabio Miretti ai tempi del Cuneo insieme a Blengino: il giocatore è il primo seduto da sinistra

Gabriele Destefanis 05/06/2022 17:41

Pubblicato in origine sul numero del 12 maggio del settimanale Cuneodice: ogni giovedì in edicola
 
“Tecnicamente era bravo, ma la cosa che mi ha impressionato di più la prima volta che l’ho visto giocare è la ‘garra’ che aveva. Era diverso dagli altri bambini, non ho mai più visto uno così”. Domenica 1° maggio il saluzzese Fabio Miretti, classe 2003, 19 anni da compiere ad agosto, ha debuttato da titolare con la maglia della Juventus nel match vinto per 2-1 contro il Venezia, per poi giocare dal primo minuto, e bene, anche l’incontro successivo, perso dai bianconeri per 2-1 sul campo del Genoa. Aveva già esordito in alcuni spezzoni sia in Champions League che in campionato, ma il lunch match contro i lagunari è stata la sua prima partita da titolare. Si è piazzato davanti alla difesa, ha dettato i tempi del gioco dei bianconeri con la personalità e l’autorità di un veterano, si è occupato di battere tutti i calci piazzati ed ha anche sfiorato il gol.
 
A guardarlo davanti alla tv c’era un tifoso speciale: Fabrizio Blengino, non solo “un gobbo vero”, come si definisce lui, ma anche il primo allenatore di Fabio ai tempi del Cuneo, dove arrivò quando aveva 6 anni, dopo gli inizi all’Auxilium Saluzzo.
 
Fabrizio, ci racconti cosa hai pensato la prima volta che lo hai visto giocare?
“Che era diverso dagli altri, era impossibile non accorgersene. Ai tempi la Scuola di Perfezionamento Calcistico Excellent di Ermanno Demaria gestiva il settore giovanile del Cuneo ed io allenavo i Pulcini. Lui lo aveva visto durante uno stage a Saluzzo, mi aveva detto che era molto forte e che lo avrebbe portato ad un ‘Porte aperte’ al Paschiero. Quando l’ho visto giocare, sono rimasto impressionato: aveva solo 6 anni, era piccolo e magro, molto più degli altri. La pettorina che indossava gli arrivava sotto le ginocchia. Col pallone era bravo, ma quello che mi aveva colpito era altro: aveva una determinazione, una ‘garra’ pazzesca. Rimbalzava contro gli altri, che fisicamente erano molto più grandi di lui, ma in un attimo si rialzava e continuava a rincorrere la palla, ovunque. Non ho mai più visto qualcuno con quella voglia e quella carica. Lo abbiamo aggregato a quelli più grandi di lui, ma non è mai stato un problema, perché faceva la differenza anche lì”.
 
Cosa aveva in più rispetto agli altri?
“In quella squadra c’erano bambini bravi, alcuni hanno proseguito e stanno ancora giocando a buoni livelli, ma lui era il migliore di tutti. Aveva una testa differente, già da grande per come si comportava in campo. Gli altri bimbi durante gli allenamenti sono giocherelloni, scherzano e giocano con i compagni. Lui no, era serissimo, molto concentrato su quello che doveva fare. Si allenava già come un giocatore adulto. Ed era molto competitivo e conscio delle sue qualità. Una volta mi ha anche lanciato una scommessa, che ovviamente ha vinto”.
 
Racconta.
“Eravamo alla finale di un torneo, a cui partecipavamo con una squadra più giovane delle altre. Il risultato era di 1-1, ma nel finale i nostri avversari avevano realizzato il 2-1. Abbiamo preso la palla per battere il calcio di inizio, lui mi ha guardato e mi ha chiesto: ‘Mister, posso andare?’. ‘Certo, vai, ma devi fare in fretta’, gli ho risposto io. ‘Ci metto 15 secondi’, ha ribattuto Fabio, dicendomi che gli avrei dovuto pagare una Coca Cola se ce l’avesse fatta. Gli hanno toccato la palla, ed è partito: ho visto nei suoi occhi una carica incredibile, li ha superati tutti e in pochi secondi ha fatto gol. Poi è venuto da me, non per abbracciarmi, ma per ricordarmi che dovevo pagare la scommessa (ride, ndr)!”.
 
Quanto lo hai allenato?
“Per due stagioni, poi è andato via. Già nei primi tornei in cui partecipavano anche squadre professionistiche, era stato notato. Era impossibile non accorgersi di lui. Inizialmente è andato al Torino, ma appena ha avuto la possibilità è passato alla Juventus. La famiglia è juventina, lui anche: aveva i poster dei giocatori in camera, immaginate che emozione”.
 
Prenditi qualche merito. Cosa gli hai insegnato?
“Ma cosa vuoi insegnare ad uno così? (ride, ndr). Quello che aveva ce l’aveva già dentro. L’unica cosa che ho fatto è trasmettere, a lui e a tutti gli altri, l’importanza del gioco collettivo. Cercavo di premiare chi faceva tanti passaggi, un modo per coinvolgere anche quelli meno bravi della squadra. Perché lui, se avesse voluto, avrebbe potuto giocare da solo e fare sempre gol!”.
 
Hai visto la partita con il Venezia?
“Certo. Io sono un gobbo vero! E questa volta avevo un motivo in più per guardare la partita della Juventus. È stato molto bravo, ha giocato un’ottima partita ed è anche andato vicino a fare gol. Quello che mi ha impressionato di più è il fatto che fosse lui a battere tutte le punizioni e i calci piazzati: a neanche 19 anni, al debutto da titolare, in una squadra come la Juventus, con tutti i giocatori di qualità che c’erano in campo, significa davvero qualcosa”.
 
Secondo te dove può arrivare?
“Può fare una bellissima carriera. L’ho sempre seguito con affetto in questi anni, perché la fortuna di allenare uno così non credo che mi capiterà più. Se mantiene la determinazione che aveva già da ragazzino e non perde quell’umiltà che lo ha sempre contraddistinto, non può che fare bene. Ma non ho dubbi che sarà così: è un ragazzo serio e con un’ottima famiglia”.
 
Come suo primo allenatore, aspetti la sua maglia?
“Per un juventino sfegatato come me, sarebbe davvero il massimo. Se vuole regalarmela, la prendo volentieri, per darla a mio figlio”.

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