Quali sono i giorni che rimangono stampati per sempre nella memoria di un bambino? Il compleanno? Il Natale? Qualche festa particolarmente significativa? Non lo saprei dire con certezza. O meglio, non so se sia un discorso che si può generalizzare: posso parlare per me, non per tutti. Oggi ho quasi trentatré anni e se devo individuare e raccontare uno dei giorni più belli della mia infanzia senza ombra di dubbio vado al 29 maggio 1999. Non era un giorno come un altro. Non lo era innanzitutto perché al mattino non si andò a scuola, e insomma, già quello era un buon inizio. Non era un giorno come un altro perchè al pomeriggio Marco Pantani sarebbe passato sotto casa mia. Il 29 maggio 1999 era il giorno della Bra-Borgo San Dalmazzo e per me, borgarino e tifoso sfegatato del Pirata, era un Natale eccezionalmente fissato a fine primavera.
A quell’epoca già ero - lo sarei rimasto - appassionato (o meglio, qualcuno direbbe malato) di calcio, eppure le mie attenzioni sportive in quegli anni facevano un’eccezione. Un’eccezione che andava su una bicicletta, che andava forte, troppo forte per tutti. Pantani per me e per tantissimi bambini della mia generazione era semplicemente un idolo. Un supereroe, solo che al posto del mantello indossava una bandana. Basterebbe questo per definire bene cos’è stato Marco, ciclista capace di appassionare una generazione intera in un Paese in cui il calcio monopolizza spazio, attenzioni e riflettori: un’impresa che nella storia italiana è riuscita solo a una manciata di altri sportivi extra-pallone.
Di quegli anni ho rimosso tante cose. Non ricordo tutti i regali scartati sotto l’albero a Natale, non ricordo tutti i compagni di scuola, non ricordo tutte le feste di compleanno in giardino o le gite fuori porta. Di quel 29 maggio, invece, ricordo tutto. Il Giro arrivava a Borgo e avevo la sensazione che il mio paesello, tutto colorato di rosa, fosse il centro del mondo: si respirava un’aria diversa, già dal mattino. Ricordo il sole, ricordo una folla oceanica in strada, roba che a Borgo non ho più rivisto, ricordo il sombrero marchiato Estathe, più grande di me, lanciato dalla carovana, ricordo i maxi schermi che proiettavano le immagini della tappa. Ricordo il me di otto anni chiedere ossessivamente a mio padre e mia madre in che posizione fosse Pantani, mentre intorno non si faceva che parlare di Savoldelli, che si stava lanciando giù dal Fauniera a velocità folli: ma chi se ne frega di quel Savoldelli, ditemi di Marco, piuttosto! Ricordo l’arrivo, la festa, ricordo le transenne dalle quali cercavo di fare capolino per vedere Marco indossare la maglia rosa appena conquistata, anche solo per un attimo. Una giornata intera marchiata a fuoco nel libro dei miei ricordi, in maniera così nitida da farmi sentire quasi in colpa: sì, perché ci sono giornate ed eventi più rilevanti nella vita di una persona, no? Eppure li ho dimenticati per far posto a una tappa di un Giro d’Italia di fine anni ’90.
Fu quel giorno, credo, che mi innamorai del ciclismo. Non credo che avrei una bici da corsa in garage, se non ci fosse stato il 29 maggio del 1999. Non credo che mi sarei sottoposto per diverse volte a quella meravigliosa tortura che è la “Fausto Coppi”, se da bambino non avessi incontrato Marco Pantani, se non fossi spinto dal desiderio di rendergli omaggio portando lassù, in cima al Fauniera e al cospetto della sua statua, la mia bicicletta.
Ricordo come fosse ieri anche quel pomeriggio di Madonna di Campiglio, pochi giorni dopo. Ero davanti alla tv, ero troppo piccolo per capire bene quel che stava succedendo, eppure ricordo il senso di ingiustizia che provai nel vedermi privato delle imprese del mio eroe. Quel Giro per me finì quel pomeriggio. Ricordo come fosse ieri quel giorno del 2000 sul Ventoux. Ero a casa dei miei nonni, davanti alla tv esultai di una felicità sincera, convinto che il mio eroe fosse tornato, stavolta per non andarsene più. Ancora una volta ero troppo piccolo e ingenuo per capire. Ricordo come fosse ieri - letteralmente come fosse ieri - quel giorno di San Valentino del 2004. La notizia al telegiornale. Il magone, la malinconia infinita, un nodo in gola troppo grande da gestire per un ragazzino di tredici anni.
Oggi sono vent’anni che Marco non c’è più. E lo chiamo così, per nome, come se fosse un vecchio amico. Perchè lo è stato davvero, compagno di estati spensierate, eroe per un bambino che di eroi che vanno in bici non ne aveva mai avuti e non ne ha avuti più. In più, credo che il fatto che abbia scritto sulle strade di casa mia una delle pagine più belle della sua storia me lo faccia sentire ancor più vicino, se possibile.
Ci sono stati, ci sono e ci saranno ciclisti più forti e vincenti di Pantani. Non ce ne sarà mai più uno che rappresenterà per la gente quel che ha rappresentato Pantani. Sono vent’anni che non ci sei più, eppure ci sei sempre, Marco.