CUNEO - “A Cuneo c’è multiculturalità, ma sull’integrazione ho dubbi”

Il fotografo documentarista Nicolò Filippo Rosso racconta impressioni ed esperienze del suo primo lavoro in città (e in Italia), nato per raccontare Cuneo centro

Francesca Barbero 02/07/2022 10:20

Pubblicato in origine sul numero del 9 giugno del settimanale Cuneodice: ogni giovedì in edicola
 
Nicolò Filippo Rosso, fotografo documentarista di fama internazionale (tra i riconoscimenti l’Eugene Smith Fund Grant e Word Press Photo) ha concluso l’esperienza di “MOVING BOaRDERS”, residenza d’artista promossa da “La Boa” e “Noau officina culturale” per raccontare il quartiere Cuneo Centro. Il primo lavoro in Italia per Nicolò, originario di Busca, che vive in Colombia e si occupa principalmente di rotte migratorie.
 
Le fotografie sono state esposte all’incrocio tra corso Giolitti e via Silvio Pellico.
 
Quali sono le tue impressioni su Cuneo, dopo tre settimane passate a documentare il quartiere intorno alla stazione? Il tuo primo lavoro in Italia, e a casa.
“È stata un’esperienza molto bella. Erano tanti anni che non vivevo a Cuneo e non la osservavo quindi è stato un modo per riscoprire la mia città, che conoscevo quando facevo il liceo. Ovviamente è stato un processo corto rispetto a tutte le cose che ci sono da raccontare e il risultato non ha la pretesa di essere il riflesso esaustivo della città o di quella parte della città. Sarebbe interessante tornare e poter approfondire altri aspetti che non ho esplorato”.
 
Ora che il lavoro è finito, hai visto la multiculturalità e l’integrazione che la residenza d’artista voleva raccontare?
“La multiculturalità sì, l’integrazione non sono sicuro di averla vista. Andando avanti con il lavoro ho esplorato aspetti circoscritti di quel territorio, ad esempio sono andato a fotografare i musulmani durante il Ramadan nel centro islamico o gli evangelisti durante la preghiera. Ho affrontato gli aspetti che mi interessavano separatamente perché non li vedevo mescolati insieme. L’aspetto che più è rimasto tagliato fuori è quello dei residenti locali italiani, che avrei voluto poter fotografare di più. Se ci sarà occasione lo rifarò in futuro”.
 
Nelle tue immagini, con un occhio attento e non invadente, ricerchi l’onestà e l’autenticità, e un linguaggio che restituisca una tua “assenza o presenza discreta e in armonia” con quello che racconti. Nel lavoro sulle rotte migratorie nelle Americhe stringi e mantieni legami con le persone, che è anche un modo per documentarne tutto il viaggio. Hai stretto dei legami qui?
“Sì, si sono costruite delle amicizie ma non necessariamente con chi ho fotografato. È capitato con alcune persone che mi hanno aiutato a realizzare alcune fotografie o a trovare accessi e zone, come nel caso di una signora che mi ha aiutato a fotografare una zona di Cuneo dall’alto facendomi accedere alla sua terrazza. Con alcuni sono rimasto in contatto, ma meno con le persone che ho fotografato rispetto a quanto accade di solito”.
 
Ci sono stati episodi piacevoli significativi? O spiacevoli.
“Ho fotografato alcuni arresti e chiaramente non è mai piacevole perché se le forze dell’ordine devono intervenire è per qualcosa di spiacevole che sta succedendo. Lì ho visto una città diversa da quella che ricordavo: una città con problemi di droga, criminalità e disordine sociale. Situazioni piacevoli ce ne sono state diverse, anche non tradotte in fotografia. Come con Mirela, una ragazza albanese che ha un bar nel quartiere, di cui non ho ancora una foto significativa. O con altri ragazzi del quartiere come Moussa, Afshin, Asna e suo marito, Mohammed “Simo” e Oksana, appena arrivata dall’Ucraina. Persone che sono felice di aver conosciuto”.
 
Come reagiscono le persone quando le fotografi?
“In alcuni casi sono a disagio e non vogliono essere fotografate, in altri esprimono un disagio rispetto alla fotografia e allora quelle immagini non vengono utilizzate. C’è stata una situazione, dal barbiere Afshin, di una ragazza che non voleva farsi fotografare. Le ho chiesto di farmi provare e ho fatto questa foto con lei e i riflessi della vetrina, gliel’ho fatta vedere ma lei non si piaceva e così non l’ho utilizzata. O un’altra situazione in un locale di un ragazzo dominicano che mi ha permesso di fotografare ma che poi ha chiesto di farmi sapere che le mie fotografie non erano più gradite perché i suoi clienti erano infastiditi. In quel caso non le ho utilizzate, anche se avrei potuto. Insomma è un modo per lavorare nel rispetto della persona e in tranquillità. Tanti, invece, sono contenti di essere fotografati e all’inaugurazione c’erano persone ritratte che si sono fotografate davanti alle stampe. Altri mi hanno scritto di essere felici di essere stati fotografati”.
 
Quali sono le tue impressioni su Cuneo, dopo esserti fermato a casa per un po’? Com’è Cuneo rispetto agli altri luoghi del mondo dove lavori?
“Qui rispetto al fenomeno della migrazione stavo esplorando la destinazione e non il viaggio e c’è una differenza fondamentale perché è diversa la prospettiva delle persone che fotografo, che sono in un momento diverso del processo migratorio. Quando fotografo altrove sto fotografando luoghi che non sono miei. Alcuni lo diventano con il tempo, ma non necessariamente. Questi sono i miei luoghi perché io qui ho tante memorie. Cuneo per me è una città bellissima dove, paradossalmente, ho notato che non c’è l’abitudine di vedere un fotografo muoversi nelle vie a fotografare.
Non mi riferisco solo a un episodio in cui sono stato allontanato dalle forze dell’ordine mentre documentavo. Con “La Boa” abbiamo chiesto a alcune famiglie di poterle fotografare in pranzi domenicali o in momenti di quotidianità ma non hanno voluto. Altri sicuramente avrebbero acconsentito ma in quel momento ho deciso di concentrarmi su altre cose e muovermi con chi apriva le porte. In tanti altri luoghi sono entrato nell’intimità delle persone, dalla nascita alla morte dei membri delle loro famiglie, ma qui non c’è l’abitudine ad aprirsi e le persone sono particolarmente chiuse. In Europa durante la pandemia è stato molto difficile, per i colleghi, fotografare i funerali dei morti di Covid perché c’è un tabù della morte che riflette una visione delle cose di questa società europea e occidentale dove si vive senza pensare che un giorno morirai. È un grave errore perché non ricordandotelo presti meno attenzione a certe azioni che commetti, a certe politiche di odio e atteggiamenti di indifferenza che poi, inevitabilmente, finiscono per avere una relazione anche con questo difficile processo di integrazione”.
 
Mi ha colpito una fotografia di una ragazza che canta nella messa evangelica. Uno sguardo è sempre molto potente ma qui lei ha gli occhi chiusi. Mi sembra un’immagine ancora più significativa per questo.
“La messa evangelica è una messa molto partecipata con le persone che prendono la parola e cantano. La ragazza cantando sembrava molto concentrata e molto ‘dentro’ quello che stava facendo. È in un momento di socialità e collettività ma è molto concentrata nel sentimento che cantare e vivere quel momento di preghiera le trasmette. Come se la relazione che ha con l’ambiente intorno a lei si alimentasse della relazione che in quel momento lei ha con se stessa. È completamente concentrata nel canto e nella musica, nel suo mondo. E trasmette ciò che vive al mondo esterno”.
 
É quasi come se lei fosse musica in quel momento.
“Sì esatto, una cosa del genere”.

Notizie interessanti:

Vedi altro