DRONERO - A Dronero il Giappone incontra l'Occitania

All'Espaci Occitan un incontro con alcuni intellettuali nipponici sul diverso significato del termine "patois" in vari paesi

Renato Lombardo 01/09/2022 10:53

Nei giorni scorsi presso l’Espaci Occitan di Dronero il rosso del Sol Levante giapponese ha incontrato quello cinto di giallo della croce pomellata d’Occitania. In tale data, nel salone dei convegni di Espaci, si è svolto un incontro, aperto al pubblico, con una delegazione giapponese di ricercatori, capitanati da una figura già nota nelle valli, Naoko Sano, Professoressa dell'Università Prefetturale di Aichi, parlante occitano e autrice di Una lenga en chamin, saggio/intervista sulla lingua d’Oc in Piemonte. Tema del convegno è stato la “Diffusione e variazione del termine «patois»: Italia, Belgio, Francia, Catalogna”. Gli studiosi infatti hanno indagato il diverso significato che il termine “patois” ha in vari paesi.
 
Sono intervenuti Kasuya Keisuke (Professore emerito Università di Hitotsubashi) “Classificazione sociale del linguaggio e ideologia linguistica nel caso del Grégoire e del Manzoni”; Sano Aya (Borsista nazionale di ricerca Post-Dottorale) “Coscienza linguistica e nozione di « patois » in area francoprovenzale: il caso de la Bresse”; Ishibe Naoto (Professore associato Università di Nihon) “Molteplicità di senso del «patois» e influenza della situazione sociolinguistica nei dibattiti al Parlamento belga nel XIX secolo”; Sano Naoko, “Il termine "patois" si è fermato alle Corbièras: la demarcazione tra l'occitano e il catalano”.
Gli ospiti, oltre a esporre il tema del loro intervento, hanno raccontato ai partecipanti com’è nato l’interesse per lingue così lontane dalla propria quotidianità, illustrando le loro esperienze di studio e lavoro.
 
Dopo le presentazioni di Rosella Pellerino, Direttore Scientifico di Espaci, la professoressa Naoko Sanoha ha introdotto il tema del convegno, incentrato sulla diffusione e variazione di significato che il termine “patois” riveste negli ambiti delle realtà nazionali degli stati elencati nel tema del convegno: peggiorativo in Francia, addirittura un insulto in Catalogna, ma assimilato a “lingua madre” in Belgio tra i Valloni e tra i francoprovenzali in Svizzera e ampiamente utilizzato anche in Piemonte. Ha preso quindi la parola Kasuya Keisuke (Professore emerito Università di Hitotsubashi) sul tema “Classificazione sociale del linguaggio e ideologia linguistica nel caso del Grégoire e del Manzoni”. Il tema di questa pagina, per ragioni di spazio, sarà limitato al suo interessante intervento. L’esposizione è iniziata con  un breve cenno al percorso storico che ha portato all’avvento delle lingue nazionali in Francia e ln Italia e il loro rapporto con i dialetti locali.
 
Per comprendere la considerazione di cui godevano in Francia i “patois” nel XVIII secolo è sufficiente leggere il titolo del rapporto dell’abbé Henri Grégoire alla Convention Nationale del giugno 1794: “Rapport sur les nécessités et les moyens d’anéantir les patois et d’universaliser l’usage de la langue française”. La necessità sarebbe stata motivata dal fatto che “…con trenta dialetti differenti siamo noi ancora, riguardo alla lingua, alla torre di Babele”. Quasi un secolo dopo in Italia è il Manzoni a caldeggiare l’unificazione linguistica del paese dopo il conseguimento dell’unità politica. Nella sua relazione del marzo 1868, intitolata “Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla”, l’autore propone misure abbastanza centralistiche che promuovono la “sostituzione” dei dialetti con la lingua nazionale. Tuttavia, pur prendendo al Francia come modello, il Manzoni asserisce che, “se considerati in sé, nella loro essenza, i cosiddetti dialetti italiani sono di quelle cose che il senso universale degli uomini chiama lingue”. E lo sono in quanto compiono pienamente la funzione della comunicazione sociale. “Il loro difetto”, continua l’autore, “è d’esser molti”.
 
Come accadde per il latino che, partendo dall’Urbe si diffuse a tutto l’impero, così il francien, dialetto della lingua d’oil parlato nel medioevo in Francia nell’antica Ile-de-France, sede della capitale Parigi, si propagò a tutta la Francia e, analogamente, quello parlato in Italia in Toscana, patria del padre del volgare (Dante), si allargò a tutta l’Italia.
 
Ma, interessante annotazione, “mentre il toscano faceva discepoli fuori dai suoi confini, il francese creava dei sudditi”. Come asserisce Auguste Brun nella sua indagine sul processo di penetrazione del francese nelle province del Sud, “la questione del francese nel nostro paese, più che una questione di civilizzazione, è stata una questione politica” (A. Brun, Recherches Historiques Sur l'Introduction du Français Dans les Provinces du Midi, 1923: 483).
 
Prescindendo dalle considerazioni storiche e dalle politiche di imposizione della lingua nazionale a scapito dei dialetti è sotto gli occhi di tutti come il destino di questi ultimi sia irrimediabilmente segnato. La coesistenza del dialetto parlato nella comunità di appartenenza e la lingua nazionale di referenza potrebbe essere possibile. La condizione perché ciò avvenga è che la presenza di una coscienza identitaria imponga ai genitori locutori “patoisant” di trasmettere ai figli la parlata dei padri. Perché, pur essendo un convinto sostenitore della necessità di un plurilinguismo che preservi anche le nostre lingue ancestrali, sono altrettanto convinto che queste ultime si debbano apprendere in famiglia, a partire dalla prima infanzia, e, anche a motivo della plurietnicità dell’attuale popolazione scolastica, non abbia alcun senso pretendere di insegnarle a scuola, in un’età nella quale le scelte linguistiche sono oramai consolidate e irreversibili.

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