Riceviamo e pubblichiamo:
Sono passati 20 anni da quando mia madre è mancata, si è tolta la vita, è morta suicida.
La parola “suicidio” è una parola che mette il terrore, un’ombra nera, uno stigma, una vergogna che mi porto dietro da tutti questi anni e di cui non posso, non riesco a parlarne neanche alle persone più vicine a me (mio padre, mio figlio, i miei amici).
Il dolore della perdita a causa del suicidio ha delle caratteristiche che lo distinguono dal dolore per la perdita di un caro per altre cause e quasi sempre neanche i terapisti ne sono così consapevoli, né preparati.
Lottiamo tutta la vita per comprendere le ragioni, cercando di dare anche un senso al nostro enorme senso di colpa.
Lo stigma che il suicidio storicamente si porta dietro è poi un peso addizionale. Siamo depositari di qualcosa di alieno e terrificante e spesso il poter rievocare ricordi lieti e pensare che, se avesse potuto, la persona scomparsa sarebbe stata ancora presente, non è un processo attuabile.
Non posso parlare di mia madre perché dovrei spiegare e giustificare com’è successo, non posso ricordare i momenti belli con nessuno perché è come se partissi dall’alto di uno scivolo ripidissimo che in pochi secondi mi riporterebbe alle sue ultime 24 ore. Il ricordo di 20 anni vissuti con lei è più breve delle sue ultime 24 ore.
Non posso parlare di mia madre perché quando sento commentare le notizie di morti suicide ho la conferma della repulsione e del giudizio che si porta con sé questo gesto.
Non posso parlare di mia madre perché quando incontro una persona che so che ha vissuto il mio stesso dolore, la guardo, ci guardiamo come due animali selvaggi che si incontrano e si riconoscono all’interno di una radura ma decidono di scappare e continuare a correre ognuno nella sua direzione, soli, come hanno sempre fatto, per non essere scoperti.
La storia insegna che in passato veniva applicata ogni tipo di punizione a coloro che si suicidavano e ai loro cari. Oltre a sottoporre il corpo del suicidio a pubblica umiliazione, spesso si negava anche il rito funebre e la sepoltura nei cimiteri. La famiglia spesso era privata degli averi del defunto o subiva addirittura ripercussioni legali.
Una possibile interpretazione di queste usanze si riferisce alla necessità di mostrare pubblicamente la gravità del gesto scoraggiando ulteriori suicidi, che aveva tuttavia effetti deleteri sui sopravvissuti.
Attualmente, sebbene non vi siano più ripercussioni altisonanti, vi sono sottili processi di emarginazione nei confronti dei sopravvissuti. Si assiste alla riduzione dei contatti sociali, al silenzio sia dentro che fuori alla famiglia e alla sofferenza spesso negata nelle manifestazioni più comuni ma presente nel quotidiano in modo mascherato e inaspettato.
In Piemonte i suicidi sono il 21% di tutte le morti da causa violenta pari allo 0,82 per cento ogni 10.000 abitanti e ogni morte porta con sé almeno 6 persone sopravvissute che cercano di elaborare il lutto per anni, senza successo.
In Piemonte e a Cuneo è totalmente inesistente un programma per i familiari.
In Italia, i programmi dedicati ai sopravvissuti sono ancora legati a realtà locali in cui operano professionisti o familiari sensibili al problema.
Scrivo questa lettera aperta, anonima e per iniziativa autonoma e personale per raccogliere testimonianze, creare confronto e una rete di persone che hanno subito un lutto di un famigliare per suicidio nella speranza di poter creare un gruppo di mutuo-aiuto a Cuneo.
Cerco inoltre persone che abbiano elaborato il lutto con percorsi specifici e/o terapisti preparati che si offrano come guide del gruppo. Scrivere alla mail aquellicherestano@gmail.com.
Lettera firmata