CUNEO - Cuneo, parla Maurizio Roberto, primario di Cardiochirurgia: “Io Ct di una squadra a servizio del paziente”

Il medico torinese, che ha lavorato con Gino Strada, da pochi mesi è approdato all’ospedale Santa Croce e Carle: "Quando un cuore riparte senti di aver contribuito alla magia del dare la vita”

Maurizio Roberto

Chiara Carlini 31/07/2022 08:24

Maurizio Roberto è il nuovo direttore della Cardiochirurgia dell’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo. Sposato, con due figli, originario di Torino, dove si è anche laureato in Medicina, si è poi specializzato a Milano dove ha svolto la sua professione al Centro Cardiologico Monzino con esperienze all’estero, dal Canada all’Australia. Ci racconta subito che, recentemente, un’equipe multidisciplinare dell’azienda ospedaliera da lui coordinata, ha affrontato un caso
particolare, raro a livello mondiale: l’asportazione, ad un uomo di 70 anni, di un tumore dal solo polmone che gli era rimasto. Incontriamo il medico nel suo studio.
 
Dottor Roberto, da pochi mesi a Cuneo dirige un reparto importante e nella fase, forse più delicata, dell’uscita dall’emergenza da pandemia Covid-19.
“La priorità del nostro reparto è oggi quella di tornare a pieno regime perché a causa della pandemia e dell’essere stati un ospedale Covid, la capacità d’intervento si era ridotta del 50%. Ovviamente, dal 2020, la priorità era affrontare il coronavirus, ma dalla fine del 2021 siamo, piano piano, tornati operativi. Sono felice di questo incarico e di lavorare con ottimi professionisti come quelli che operano in questa realtà. “L’Heart team”, un modello di approccio multidisciplinare per affrontare le situazione più complesse. Una squadra composta da professionisti, istituita solo dallo scorso maggio, che ogni mercoledì pomeriggio si riunisce per esaminare i casi clinici più delicati. A volte partecipano in tele-conferenza anche altri colleghi di Savigliano, Mondovì e Verduno, per consultarci e confrontarci insieme su determinate patologie. Nel mondo anglosassone lavorano così da decenni, in Italia è più recente”.
 
Come è composto questo gruppo di lavoro?
“Circa dieci o dodici persone al massimo. Chirurghi di chirurgia toracica e cardio-chirurgia, cardio-anestesisti, chirurghi vascolari e coordinatori infermieristici che integrano le loro competenze per individuare il percorso diagnostico e terapeutico, e le soluzioni migliori, per il paziente preso in esame. Un approccio nuovo che punta sulla comunicazione tra professionisti, con nessun costo ulteriore per l’ospedale, ma con riscontri positivi già visibili dopo pochi mesi dalla sua istituzione”.
 
Anche in sala operatoria partecipano tutti gli attori coinvolti?
“Molto spesso sì. Lavorano tutti in team per intervenire secondo le proprie competenze per fornire il miglior servizio al paziente preso in cura. Come in una squadra di calcio, vince il gruppo e non l’individualismo”.
 
Lei allora è il commissario tecnico?
“Sì, possiamo dire così”.
 
L’Heart team era operativo nel caso citato?
“Si. L’equipe ha predisposto e pianificato accuratamente in maniera collegiale tutte le fasi dell’intervento al quale sarebbe stato sottoposto il paziente. Durante l’intervento è stata utiizzata l’ECMO, un’apparecchiatura di circolazione extracorporea con la possibilità di ossigenare il sangue, usata oramai da anni principalmente nel caso di insufficienza respiratoria e circolatoria acuta in emergenza e che può sostenere un paziente per diversi giorni o settimane, in attesa del recupero funzionale. La peculiarità dell’intervento, nello specifico del paziente descritto, è stato l’uso programmato dell’ECMO veno-venoso come un vero e proprio polmone artificiale, utilizzato per il tempo necessario a rimuovere la massa tumorale. Ultimato infatti l’intervento sul polmone, il paziente è stato rapidamente e facilmente ‘svezzato dal macchinario’”.
 
Nel suo profilo si legge che ha avuto numerose esperienze all’estero.
“Al Toronto General Hospital in Canada e al Royal Adelaide Hospital in Australia. Due realtà molto importanti e differenti tra loro. Ad esempio in Australia
è tutto protocollato, non c’è quasi spazio per la fantasia e l’improvvisazione. Avere percorsi clinici e terapeutici standardizzati, permette di inserirsi molto rapidamente nei team medici”.
 
Ha avuto anche un’esperienza in Sudan con Emergency di Gino Strada.
“Nel 2007 ho partecipato a una missione umanitaria all’estero per tre mesi in Sudan con Gino Strada che mi ha formato come uomo e come medico. Un ospedale modello. Il segreto di Strada era quello di portare il meglio dell’Occidente nei paesi del terzo mondo, per garantire il massimo in termini sanitari. Alcuni anni dopo, con altri tre  medici, abbiamo fondato Safe Heart Onlus per organizzare missioni umanitarie all’estero collaborando con altri enti e associazioni”.
 
Si trova bene a Cuneo?
“Conosco questa provincia da sempre. Venire a Cuneo è stato come chiudere un cerchio. Avevo una nonna originaria di Roccaforte Mondovi e quando ero piccolo mi capitava molto spesso di andare a trovarla. Sono nato e cresciuto a Torino, ma la mia crescita personale e professionale è stata quasi sempre in Lombardia. Tornare in Piemonte è tornare a casa”.
 
Perché ha scelto di fare il medico e specializzarsi nella cardiochirurgia?
“Un sogno che avevo fin da bambino. Per me il medico era un piccolo grande eroe che salvava la vita delle persone. Non avevo nessun esempio in famiglia e sapevo che il percorso professionale sarebbe stato lungo e impegnativo. Mio padre era operaio alla Fiat e mia madre insegnante. Ma sentivo che la mia strada era questa. La cardiochirurgia invece è stata una scelta avvenuta quasi al termine di Medicina. Finito il percorso universitario, c’era il progetto mille ore, che prevedeva l’obbligo, di frequentare tutti i reparti delle Molinette prima dell’esame di Stato. Fu durante la mia prima osservazione in sala operatoria di un intervento a cuore aperto, per la sostituzione di una valvola mitralica, che scelsi la specializzazione”.
 
Nel frattempo, ci raggiunge Fabio Barili, cardiologo e segretario scientifico dal 2021 della Società italiana di chirurgia cardiaca (Sicch). Viene sottolineata l’importanza per Cuneo di avere un referente sul posto dell’associazione che promuove la ricerca scientifica e i progetti di prevenzione per la cardiochirurgia. Mentre ci salutiamo, la conversazione verte sulle motivazioni che portano a scegliere di diventare medico.
 
Dottore, cosa si prova quando si salva una vita, quando si riesce a far ripartire un cuore?
“È per quel suono che fa il cuore quando riparte, per quella sensazione, che ho scelto cardiochirurgia. Quando un cuore riparte senti di aver contribuito,
seppur minimamente, a quella magia misteriosa che è il dare la vita. La scienza può spiegare molte cose, ma non tutto”.

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