DRONERO - Mario Calabresi va alla ricerca del tempo perduto: “Portiamo un po’ di bosco nelle nostre vite”

Nell’ultimo libro, presentato al festival “Ponte del Dialogo” di Dronero, il giornalista racconta come ha imparato l’arte del “vivere lento”

Andrea Cascioli 11/11/2024 11:11

È un fenomeno stranissimo, di cui si è iniziato a parlare durante la pandemia. Ma è talmente vasto che gli economisti - e non solo loro - ci si rompono la testa: in inglese si chiama “Great Resignation” o anche “Big Quit”. In italiano l’abbiamo tradotto con “grandi dimissioni”. C’è perfino una pagina dedicata su Wikipedia, dove si spiega che a partire dal 2020 un gran numero di lavoratori, nonostante le incertezze, ha lasciato il proprio impiego: anche in Italia è successo ed è un paradosso economico.
 
Beninteso, lo fa chi se lo può permettere e non si tratta di vera “fuga dal lavoro”, ma testimonia che qualcosa è cambiato. Soprattutto nella generazione Millennial, dove sempre più persone, qualificate e corteggiate dalle imprese, di fronte alla prospettiva di trovarsi spremute fino all’ultima stilla di vita, rispondono come lo scrivano Bartleby di Melville: “I would prefer not to”. Mario Calabresi, ex direttore de La Repubblica e La Stampa, parla di qualcosa di simile nel suo ultimo libro, “Il tempo del bosco” (Mondadori): cioè di come abbia imparato a rallentare.
 
Lo ha raccontato alla platea gremita del Teatro Iris di Dronero, dove domenica si teneva uno degli incontri più attesi del festival Ponte del Dialogo: “Nei miei anni da giornalista e direttore del giornale esisteva il giornale e basta. Mi ritagliavo spazi per fare il padre, ma se parlo con le mie figlie, oggi quasi diciottenni, mi dicono che loro ricordano soprattutto di aver passato molto tempo alla Stampa”. Non è una dichiarazione contro il lavoro, spiega, ma contro l’idea che il lavoro sia una condanna e la fatica un peso: “Sta prendendo piede l’idea che il lavoro serva solo per guadagnare lo stipendio, io non ho mai ragionato così. Ho sempre pensato fosse una parte consistente della mia vita, perché era una cosa che mi stava a cuore”. Però bisogna sapere quando mettere le esigenze davanti alle scadenze: “Soprattutto di fronte alle urgenze che ci danno gli altri, tutti noi tendiamo a sacrificarci: invece penso che dovremmo rimettere al centro le cose che ci stanno a cuore”.
 
L’autore spiega di essersene accorto dopo aver adottato un metodo: “Ogni domenica pomeriggio mi scrivo su un foglietto quattro o cinque cose che per me sono importanti, come pensare a un regalo per una persona speciale, aggiustare qualcosa, telefonare a qualcuno: ogni volta che lo faccio penso, certo che me lo ricorderò. Regolarmente, al mercoledì mi accorgo che me n’ero dimenticato, travolto da tutto quello che devo fare”. Nel libro si racconta anche di un piccolo esperimento, il tentativo di “sopravvivere” per un mese senza comprare nulla online: “Ho tenuto un piccolo diario: il primo giorno, mancavano le cartucce della stampante. Ho comprato le cartucce che costavano molto di più di quelle vendute online, quando sono uscito ha iniziato a piovere ed ero senza ombrello. Tornando a casa, ho pensato di essere un cretino”.
 
Però in quel mese è successo molto altro: un incontro con un vecchio compagno di scuola dal ferramenta, la scoperta di un nuovo ristorante nel quartiere, l’esperienza di tornare in libreria. Spazi di libertà, in un mondo dove tutto ci arriva con un click: “Il tempo del bosco per me è anche un piccolo ritaglio di tempo, che ognuno dovrebbe garantirsi ogni giorno: è il tempo delle cose che ci stanno a cuore, delle cose importanti”. Ma il bosco non è solo una metafora, perché nel suo viaggio alla ricerca del tempo perduto Calabresi si è imbattuto anche in boschi veri e propri: come quello di Sassofratino, la prima riserva naturale integrale in Italia. Un luogo incontaminato dove dal 1959 si può accedere solo chiedendo un permesso speciale. Sorge ai margini del Casentino, terra di uno dei centri della spiritualità cattolica dell’Appennino, l’eremo di Camaldoli.
 
Qui Calabresi è arrivato dopo aver intervistato un professore del conservatorio di Pesaro che raccoglie i suoni delle foreste antiche, dal Borneo all’Amazzonia. È stato lui a parlargli del bosco di Sassofratino, così il giornalista si è presentato a Camaldoli per vivere alcuni giorni in compagnia di padre Ubaldo e dei frati. La cella dei monaci di clausura, racconta, è una specie di casetta con un muro intorno e un giardino interno: “Non prende il telefono, non c’è segnale, né televisione, né wifi. Loro mangiano alle sette, poi finisce la giornata e resta un’infinità di silenzio: è un silenzio talmente denso che mi svegliavo ogni mezzora, perché non ero abituato a questo”. A padre Ubaldo, Calabresi chiede perché le parole delle lodi mattutine vengano cantate con lentezza: “Per dare il tempo alle parole di passare attraverso di noi, ha risposto. In quel momento mi sono venute in mente le mie figlie che ascoltano i messaggi su Whatsapp a doppia velocità”.
 
È questo, in definitiva, il messaggio del libro: “Non dobbiamo per forza scappare dalla società, ma dobbiamo portare un po’ di bosco nelle nostre vite”.

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