Pubblicato in origine sul numero del 5 maggio del settimanale Cuneodice: ogni giovedì in edicola
Nel 1993 nasceva il Nuvolari Libera Tribù. L’anno dopo usciva Catartica, il primo disco dei Marlene Kuntz che avrebbe consacrato la band cuneese nel panorama del rock alternativo italiano. Il frontman Cristiano Godano racconta la sua esperienza dentro al “Nuvo”: quella del musicista di una band che è riuscita ad affermarsi e quella del ragazzo membro della cooperativa che diede vita a un’indimenticabile realtà sulle rive del Gesso.
Con la costituzione della cooperativa formata dai ragazzi che avevano partecipato all’esperienza del Circolo Culturale Nuvolari di via Sette Assedi, e a cui veniva affidata la gestione dello spazio dell’ex tiro a volo, nel ‘93 nasceva il Nuvolari Libera Tribù. Tra quei ragazzi c’eri anche tu. Che ricordi hai di quel periodo e di quello che fu, a tutti gli effetti, un esperimento d’avanguardia, per le proposte e per il modo innovativo di stare insieme liberamente, che riconosceva alla musica un valore artistico e culturale?
“Io entrai nella cooperativa per un motivo intimamente connesso con la mia esigenza di stare agganciato al mondo della musica e dell’arte, per poter continuare a coltivare il sogno di diventare musicista rock nella vita. Ero già quasi fuori tempo massimo (nel ‘93 avevo 27 anni), e il nostro primo disco non era ancora uscito. Mi ero laureato da poco, ma non volevo fare quello per cui avevo studiato (economia e commercio). L’esperienza del circolo culturale, e poi quella del Nuvolari, mi permettevano di eludere la necessità di ‘mettere la testa a posto’ e cercarmi un lavoro ‘normale’.
Essere parte integrante di quell’esperienza non mi dava la sensazione di star facendo qualcosa all’avanguardia, ma comprendo che in retrospettiva di questo forse si trattasse, considerando che ora a Cuneo una realtà analoga non esiste e credo che la si stia un po’ rimpiangendo, immaginandola quasi mitica. Forse lo era in effetti, chissà... Di certo da un punto di vista prettamente culturale produsse ottimi risultati durando molto nel tempo e entrando nel giro ufficiale del circuito nazionale della musica. Nessuno si è mai arricchito veramente lì dentro, ma lì dentro alcuni di noi hanno dato l’anima credendoci fino in fondo, ognuno a suo modo, ognuno con le sue competenze. Lo spirito di squadra era davvero potente e tenace, e ora che ci ripenso il pensiero è affettuoso e grato”.
Hai vissuto questa stagione da musicista di una band che è riuscita ad affermarsi. Catartica, il vostro primo disco, usciva nel ‘94. Che significato ha avuto il palco del Nuvolari per i Marlene Kuntz? C’è stato un concerto particolarmente significativo per voi?
“Beh, suonare al Nuvolari all’epoca era uno dei momenti topici della ‘stagione’ di una band come la nostra, che in quel periodo stava appena per affacciarsi alla ribalta nazionale del rock underground. Era il palco più prestigioso non solo di Cuneo, ma di tutta la provincia, e ci si approcciava con riverenza e ansia da prestazione. In genere finiti i concerti ci sentivamo mediamente insoddisfatti per via del voler far bene a casa propria, sempre ricordando che ‘nemo propheta in patria’, e per un motivo o per l’altro scesi dal palco ci pareva che qualcosa fosse andato storto oppure che la gente non avesse reagito nel modo giusto. Ma erano paturnie eccessive, perché in realtà tutto era andato mediamente bene e noi avevamo lasciato nell’atmosfera ottime sensazioni. Ricordo molti momenti significativi, più che un concerto in particolare, e se mi concentro li visualizzo con distinzione”.
Quel palco, l’unico vero palco della città, negli anni è stato fondamentale per tutte le band della scena locale: ne ricordi qualcuna in apertura a un vostro concerto che vi colpì particolarmente?
“Se non ricordo male, i Magazine du Kakao lasciarono in noi impressioni molto positive. Ma in genere prima dei nostri concerti io sono in stanza d’albergo (a Cuneo ovviamente ero a casa) a trovare concentrazione, e non ho davvero modo di ascoltare chi suona prima di noi. In fondo questo è un peccato, ma le mie ‘esigenze fisiologiche’ sono queste...”.
Al Nuvolari c’era una sorta di genius loci capace di creare un clima ‘intimo’ e particolarmente intenso, di avvicinare artisti e pubblico, di favorire incontri, scambi e legami tra artisti nel backstage. I Marlene Kuntz, nella duplice veste di band e di fruitori di quello spazio, hanno riscontrato questi aspetti?
“Nella veste di band non molto, perché eravamo un po’ dei timidi riservati che se ne stavano concentrati per i fatti loro. Credo che questa timida riservatezza sia stata, ovviamente, fraintesa con spocchia e altezzosità, secondo le dinamiche normali e tipiche che si possono creare in situazioni di questo tipo: eravamo la band che ce la stava facendo, eravamo molto concentrati sulla riuscita fuori dai confini e questo creava i presupposti per una situazione di anomala distanza fra noi e la comunità degli amanti cuneesi della musica. Ammirazione e invidia, forse. Come fruitori invece percepivamo il genius loci e ne beneficiavamo, perché frequentavamo con sufficiente regolarità le serate dei concerti rimanendo fino alla fine a godersi lo spazio nella sua dimensione estiva e accogliente (nonostante l’umidità del fiume lì vicino). Ho ottimi ricordi anche in tal senso”.
Cosa ha rappresentato il Nuvolari, con il suo festival estivo che aveva un’eco che risuonava negli ambienti dell’underground nazionale, e internazionale, per la città di Cuneo?
“Ho sempre avuto la sensazione che il Nuvolari meritasse qualcosina in più da parte dei cuneesi. Non dico gli affezionati alla musica: per loro era ovvio esserci e partecipare, ma penso alla comunità della città, che avrebbe dovuto rendersi conto meglio della fortuna di avere un posto che, se aiutato dal riscontro, avrebbe potuto anche evolvere in modo migliore e avere ad esempio la possibilità economica di rinnovarsi e rendersi sempre appetibile. Non essendosi innescato questo circolo virtuoso il Nuvo è rimasto sempre uguale a se stesso decadendo lentamente, e un’area così preziosa, nel verde, ricca di offerte culturali anche pomeridiane, si è lentamente sfaldata fino a cercare unicamente di resistere (e ‘resistenza’ e ‘resilienza’ sono al giorno d’oggi parole sempre più ricorrenti, in questa Italia che sta disgregandosi lentamente e andando verso Dio solo sa dove, complice, dopo l’assalto di Internet che ci ha rubato la musica, una pandemia che ha nuociuto a tutti noi in maniera tremenda e per molti già letale...).
Nulla di anomalo in fondo; purtroppo tutto ciò che è cultura non mainstream e non banale rende l’offerta di per sé settaria, e chi non ritiene di essere particolarmente interessato alle cose ‘strane’ non si aggrega di certo. Accade in ogni dove in Italia (e forse non solo), e sono rari gli esempi di situazioni analoghe al Nuvo che attecchiscono in modo così straordinario da poter crescere sempre più e rimanere fari guida della dimensione culturale di un luogo di riferimento”.