Aveva un lavoro prestigioso in una multinazionale della moda e una vita a cui - come si suol dire - “non manca nulla”. Tranne una cosa: il rapporto con la terra, la natura, il paesaggio attorno a noi. A un certo punto Barbara Nappini ha deciso di vendere la sua casa di Firenze e trasferirsi in Valdambra, nella campagna toscana, dove si è data all’agricoltura appassionandosi di permacultura e tecniche sperimentali.
Nel 2012 l’incontro con Slow Food, destinato a cambiarle ancora una volta la vita. È l’inizio di un percorso che la porterà a diventare, nove anni più tardi, la prima presidente donna dell’associazione fondata da Carlo Petrini: nel libro in cui racconta la sua storia, intitolato “La natura bella delle cose” (Slow Food Editore), scrive fra l’altro che è necessario “non tanto parlare ‘di’ donne (questo lo fanno molto e spesso anche gli uomini), ma parlare ‘da’ donne, ovvero esprimere un punto di vista ‘altro’”. Lei cerca di farlo anche quando spiega come sia possibile “cambiare vita”, senza cadere in certi clichés da Arcadia pastorale che piacciono tanto ai giornali: la coppia che “molla tutto” e va a vivere in barca, il manager milionario che diventa pastore. “Non c’è nulla di straordinario, - assicura Nappini - io l’ho fatto con un po’ di incoscienza e senza particolari privilegi: non ho mai vissuto di rendita”.
Venerdì 15 novembre alle 18,30 ne parlerà al pubblico di scrittorincittà nel Centro Incontri della Provincia, dove è attesa insieme a Fulvio Marino, il panettiere del programma Rai “È sempre mezzogiorno” e autore di “Tutta l’Italia del pane” (Slow Food Editore). “Non tutti devono lasciare il lavoro e vendere la casa, il mio è piuttosto un invito ad accogliere il cambiamento, anche quando ci chiede di tradurre il sentimento in azione” spiega la leader dell’associazione della chiocciola. Si parte da qualcosa di normale, come fare il pane in casa e andare in bici: “Ma l’essenziale è fare pensieri nuovi e lunghi che ci portino dove non siamo mai stati. L’elemento del tempo è fondamentale, è anche politico: se dedichiamo poco tempo a pensare, il pensiero ci porta sempre negli stessi luoghi”.
Oltre a portare una “voce femminile” in Slow Food, nel suo mandato Nappini si è dedicata anche al tema dell’ambiente che ispira da sempre l’associazione. Perché per un cibo “buono, pulito e giusto”, come recita il motto della chiocciola, serve un pianeta sano. Un richiamo ai decisori politici che questa settimana si riuniscono a Baku per la Cop 29, nata sotto auspici non certo entusiasmanti: “È abbastanza evidente che ci siano interessi privati enormi e specifici che condizionano tutte le politiche. Lo abbiamo visto in Food per Profit di Giulia Innocenzi, un film che ha evidenziato come anche al Parlamento Europeo molte scelte siano viziate. Questo ci deve far riflettere sul tema della democrazia, su quanto i decisori siano liberi di prendere decisioni per i beni comuni e quanto fortemente condizionati”.
Chi paga il conto della transizione ecologica? Se lo chiedono in molti, specie se messi di fronte ai costi dei vari stop alla circolazione di auto inquinanti o degli adeguamenti delle case: “È il sistema complessivo che va cambiato, l’ingiustizia si rileva perché c’è molta attenzione nello stigmatizzare l’utilizzo di auto vecchie e inefficienti ma poca attenzione agli aspetti di sistema”. Come l’allevamento industriale, sottolinea: “Quanto inquina un settore che include miliardi di animali allevati, in un numero quantificato addirittura tra i 20 e i 90 miliardi? Il cambiamento strutturale deve riguardare tutti e non può partire dal fondo: le prime undici banche d’Europa investono il 95% dei capitali in energie fossili, questo pone un problema rispetto alle scelte che vengono fatte dai legislatori”.
Di costi però si parla anche, su un piano molto più vicino al quotidiano, quando si guarda lo scontrino del ristorante. A Slow Food i critici imputano di aver concorso alla svolta “gastrofighetta” di tanta parte della ristorazione italiana. Ma il problema è diverso, sostiene Nappini: “Ci hanno abituati a gridare allo scandalo se i pomodori costano più di 2 euro al chilo, ma non se l’uovo di Pasqua industriale costa caro. La guida Osterie d’Italia di Slow Food ha sempre avuto un criterio economico. In ogni caso io, non particolarmente privilegiata nella capacità di spesa, preferisco andare una volta al mese a cena in un’osteria di qualità, piuttosto che una volta a settimana in un all you can eat: perché so che farò un’esperienza e che quel tipo di ristorazione ha una filiera di qualità”.
Quello della filiera è un tema che riporta alle materie prime e quindi a un altro “elefante nella stanza”: lo sfruttamento.
Martedì hanno patteggiato i tre indagati dell’operazione “Iron Rod”, l’inchiesta che l’estate scorsa ha dimostrato come perfino tra le uve da cui si ricaveranno Baroli pregiatissimi, a volte, si annidi la malapianta dell’ingiustizia. Se nel mondo della frutta c’è chi ha parlato dei bassi ricavi come di una sorta di scusante per il caporalato, fare altrettanto nelle Langhe dei grandi vini sarebbe ridicolo:
“Ma nel momento in cui si accetta che l’unico metro sia il profitto - avverte l’autrice -
anche là dove non c’è un tema di risicata marginalità, come nel vino, il paradigma del profitto porterà alle bastonate”.