È una favola moderna ma anche una storia con una morale, mai troppo accentuata ma sempre presente in sottofondo. Servirà a chi vive nelle Langhe o a non troppi chilometri di distanza, ai turisti che imparano a conoscerla solo nelle domeniche di bel tempo, e perfino a chi quelle colline non le ha mai viste ma apprezza i frutti più preziosi della terra: le trifole, appunto, ovvero i tartufi bianchi d’Alba.
Domenica al cinema Monviso di Cuneo la proiezione pomeridiana del film “Trifole” è stata seguita da un dialogo tra il pubblico e il regista Gabriele Fabbro, presente insieme all’attrice protagonista e co-sceneggiatrice sudafricana Ydalie Turk e ad alcuni componenti dell’orchestra “Bartolomeo Bruni”, le cui musiche hanno accompagnato le scene del film. Si tratta della prima colonna sonora firmata dall’orchestra cuneese, diretta per l’occasione dal maestro Alberto Mandarini. Un debutto cinematografico di cui il giovane regista è stato entusiasta: “Ho basato la mia filosofia di cinema - ha spiegato - su quello che Sergio Leone diceva di Ennio Morricone: ‘È il mio migliore sceneggiatore’”.
Se la musica fa da sceneggiatura invisibile, la vera protagonista di “Trifole - Le radici dimenticate” è ovviamente la Langa. I colori incendiati della sua stagione più bella, l’autunno, i poggi annegati nella nebbia da cui si stagliano i profili del castello di Grinzane, di Roddi, di La Morra. Ma anche i boschi, le forre, le terre selvagge che non finiscono su Instagram e non conoscono il turismo del vino né quello delle spa. Luoghi oscuri, inabitati, anche pericolosi, dove tuttavia perdersi può voler dire ritrovarsi. È quello che succede alla protagonista, Dalia, come racconta l’interprete: “Dalia all’inizio è depressa, viene da Londra ed è molto disconnessa dalla natura. Riuscirà a riscoprire, insieme alle sue radici, una gioia di vivere che aveva perduto: quanto più si perde in senso fisico, nei boschi, più si ritrova”.
È quella la Langa dei trifolao, dove vive il vecchio Igor, il nonno di Dalia, che ha il volto e la voce di un gigante del teatro e del cinema italiani, Umberto Orsini. A novant’anni - li ha compiuti ad aprile scorso - è tornato in quelle Langhe dove aveva interpretato il ruolo di Pinin ne “Il partigiano Johnny” di Guido Chiesa, anno 2000. “Mi ha ricordato veramente mio nonno, di cui ho messo tanto nel film. Anche la malattia” confida Fabbro: “L’energia del personaggio l’ho ritrovata subito in Orsini, un uomo di una gioia infantile nonostante i suoi novant’anni”. Igor il trifolao è un uomo che combatte troppe battaglie per le sue forze: contro i giganti del vino, perché la sua casa dovrà essere espropriata e abbattuta per allargare i filari. Contro una natura che non riconosce più, mentre alza gli occhi stanchi al cielo invocando la pioggia che non arriva da mesi. Contro la sua stessa mente che inizia a tradirlo, mostrando i segni incipienti della demenza.
Al suo fianco è rimasta solo Birba, la vecchia cagnolina da tartufi, compagna di vita e di avventure nei boschi. La figlia Marta (Margherita Buy) vive a Londra ed è troppo presa dal lavoro per occuparsi del padre. Perciò manda in Italia la giovane Dalia, che il nonno aveva conosciuto bambina e ritrova ormai donna: anche lei si sente sconfitta. Si è laureata, ha seguito la passione per la scrittura e ha capito di non avere abbastanza talento, ma ora non ha più nemmeno uno scopo. Lo ritroverà seguendo le orme del nonno, malgrado le incomprensioni - anche linguistiche - e la difficoltà nel costruire un rapporto con lui.
“Amare questo paese significa sapere che in ogni pietra e in ogni albero c’è qualcosa di te, che resterà anche quando non ci sarai più” dice Igor a Dalia, echeggiando uno dei brani più famosi di Cesare Pavese, da “La luna e i falò”. Con un’altra citazione dello scrittore, tratta da “Il mestiere di vivere”, si apre il film. Il finale, avverte il regista, può sembrare molto triste: “In realtà c'è una soluzione molto più positiva, perché Dalia ha ottenuto, da questa avventura, le radici del nonno. Tutti e due hanno avuto successo, ma è un successo interiore. E poi, nonostante la distruzione, le piante da tartufo sono state piantate. È un messaggio che vogliamo dare per ricordare quanto la natura sia parte di noi”. La natura che non è solo paesaggio, come fa comprendere il nonno alla nipote appena arrivata. Lei guarda i filari e ne è rapita, dice che è bellissimo: “Bellissimo? Ma qui era tutta una foresta una volta, era pieno di tartufi” ribatte il vecchio incredulo. Poi è arrivata la monocoltura della vite, insieme a quella della nocciola, che ha quasi ucciso la trifola e con essa le leggende contadine, antiche quanto la terra: come quella secondo cui il tartufo nascerebbe dal fulmine che si abbatte dopo un temporale, il “seme di Giove”.
La genesi del film è la più ovvia che si potesse immaginare: “A me e Ydalie piaceva innanzitutto mangiare il tartufo, le poche volte che ne abbiamo avuto occasione perché costano tantissimo” scherza Fabbro. Ma nessun trifolao racconta i suoi segreti e questo li incuriosiva: “Ci sembra una fiaba moderna, una vera e propria caccia al tesoro. Materiale che poteva rendere bene al cinema e che parlando con i trifolao è diventato qualcos’altro. Loro ci hanno raccontato come sia importante preservare la natura e questa è stata la chiave per far diventare il film non solo una favola, ma un modo per parlare della realtà”.
“Trifole” non è una storia vera ma è, per così dire, un insieme di storie autentiche. Igor per esempio deve il suo nome a un trifolao che è davvero un pezzo di storia vivente delle Langhe: Igor Bianchi. “Molti dei dialoghi - conferma il regista - sono tratti da quello che lui ha detto a me e a Ydalie e dagli incontri con i personaggi delle Langhe”. Anche la terza protagonista del film, la cagnolina Birba, ha una storia molto particolare: “Era uno dei cani che si vedevano in un documentario uscito alcuni anni fa, insieme al suo padrone, il signor Aurelio di Roddino, che poi è mancato. Tutti mi hanno parlato del suo amore pazzesco per il cane. Quando è morto, hanno portato la cagnolina al cinema a Dogliani e lei, sentendo la voce del padrone, ha pianto”. L’idea iniziale non era quella di “far recitare” un vero taboj, come vengono chiamati i cani da trifole: “Abbiamo provato con molti cani da cinema, ma non era la stessa cosa. Birba era l’unico cane a non agitarsi: del resto ha 14 anni ed è stata addestrata in maniera incredibile”. Il suo rapporto sul set con Orsini ha sorpreso tutti: “Eravamo molto preoccupati, ma lei si è davvero attaccata a Orsini: forse un po’ ha rivisto il suo padrone in Umberto”. Un’altra delle tante storie nella storia, di quelle che solo i boschi delle Langhe conoscono.