DRONERO - “Un intero Paese che si prende cura di sé stesso”: ecco il sogno dei beni comuni

Al “Ponte del Dialogo” Gregorio Arena racconta un altro modo di essere cittadini: “Vent’anni fa era un’idea, oggi un milione di persone vivono un nuovo volontariato”

Andrea Cascioli 10/11/2024 18:35

C’è un posto dove un gruppo di cittadini ha “preso in gestione” un campetto facendone la piazza del quartiere, in un quartiere che la piazza non l’aveva mai avuta. Nella stessa città, a pochi chilometri, persone comuni hanno creato 140 orti condivisi in un terreno che era divenuto una discarica. Se avete pensato che la città sia Zurigo, Copenaghen o Amsterdam siete parecchio fuori strada. Stiamo parlando di Roma, per la precisione del “campetto di Piero” nell’VIII Municipio e delle Tre Fontane.
 
È successo che i cittadini hanno firmato un patto di collaborazione con l’amministrazione locale: il campetto di Piero e gli orti delle Tre Fontane adesso sono “beni comuni”. Lo è diventata anche una piazza di Tor Bella Monaca, uno dei quartieri più degradati e vessati dallo spaccio: “Da quando c’è il patto, quella piazza non viene più vandalizzata” dice Gregorio Arena, docente emerito di diritto amministrativo e presidente dell’associazione Labsus. Arena è il “papà” dei beni comuni, cioè la persona che per prima ha iniziato a parlare di “amministrazione condivisa” nell’ormai lontano 1997.
 
“Proponevo una teoria dell’amministrazione pubblica che in quel momento era utopia” ha spiegato al pubblico del festival “Ponte del Dialogo”, accorso venerdì a Dronero per ascoltarlo. Poi è arrivata la riforma costituzionale del 2001 e Arena, che si definisce un “giurista di strada”, ha iniziato a girare l’Italia con un’idea in testa: “Si può essere cittadini in un altro modo”. Lui sostiene che lo spunto gli sia venuto osservando quel che accedeva in Trentino, dove ha insegnato per anni all’università: come un po’ in tutto l’arco alpino, le comunità del posto erano abituate a “fare da sé” di fronte agli incendi, alle alluvioni e alle altre emergenze. Una necessità, in luoghi piccoli e magari distanti tra loro. In Trentino però c’è anche un detto, che Arena ha scoperto essere diffuso in parecchi dialetti: “Roba del Comun roba de nisun”.
 
E invece no: la roba del comune è roba di tutti e tutti hanno il compito di prendersene cura. Per questo nel 2004 il professore ha fondato Labsus, acronimo di Laboratorio per la sussidiarietà. Dieci anni dopo, insieme al Comune di Bologna, l’associazione ha stilato un modello di regolamento dei beni comuni che viene messo a disposizione di tutte le città interessate. Sono passati altri dieci anni e ora 300 città italiane hanno adottato il regolamento: Cuneo, pochi giorni fa, ha votato all’unanimità un ordine del giorno per aggiungersi al già nutrito elenco. Il modello fa scuola anche all’estero: è stato adottato da Grenoble e Barcellona ci sta lavorando.
 
Tutto questo non è nato dal nulla, assicura il suo promotore: “C’era un fiume carsico di migliaia di persone che stava già facendo esattamente quello che oggi chiamiamo patti di collaborazione, ma lo stavano facendo malgrado le amministrazioni ostili”. Perché i patti non costano nulla, fanno bene alle città e anche a chi si impegna per farli vivere. Ma il vero tema è superare la coltre di diffidenza che deriva dalla burocrazia, dai timori di ripercussioni con la giustizia, in generale dall’idea che di fronte all’amministrazione pubblica i cittadini debbano stare “al posto loro”: “Ho visto cittadini multati perché tagliavano l’erba o dipingevano una panchina, è una cosa pazzesca” conferma Arena.
 
È il frutto di una mentalità vecchia, nata con la rivoluzione francese: “Le amministrazioni pubbliche sono un fenomeno storicamente collocato, se ne parla solo da 200 anni: per migliaia di anni, il fatto che le persone si prendessero cura delle strade e dei beni comuni era la normalità”. È quello che oggi siamo chiamati di nuovo a fare, sostiene il fondatore di Labsus, perché ci sono sfide che chi amministra non può vincere da solo: “L’amministrazione è stata ed è tuttora vitale per il funzionamento della società. Però questo ha deresponsabilizzato milioni di persone, per generazioni, nei confronti di tutto ciò che è pubblico: questo paradigma bipolare, con l’interesse pubblico che sovrasta gli interessi privati, ha fatto sì che per generazioni si pensasse ai problemi come ‘problemi dell’amministrazione’”.
 
Ribaltare questo paradigma significa passare dal concetto di “manutenzione” a quello di “cura”: “La nostra forza è poter dire che questo sta funzionando, anche a chi teme le conseguenze di fronte alla giustizia penale. È uno strumento in più per affrontare i cambiamenti climatici, le migrazioni, le pandemie: non lo immaginavo quando scrissi il saggio venticinque anni fa. Come pensiamo di affrontare, per esempio, la scarsità di risorse idriche, se non convinciamo milioni di persone a fare piccoli gesti?”. È tutto qui, dice Arena, il sogno dei beni comuni: “Il sogno è pensare a un intero Paese che si prende cura di sé stesso”.
 
Dopo la pandemia, in particolare, sono aumentati i patti riguardanti la cura del verde. Per molti - specie gli anziani - è soprattutto un modo di passare del tempo fuori casa: “I patti ‘fanno comunità’ e combattono la solitudine, aumentano la resilienza del Paese e liberano le energie nascoste: sono come i pannelli solari delle risorse civiche”. Ma fanno bene anche alla società, tant’è che i muri delle scuole dipinti dai genitori sono quelli che poi restano puliti più a lungo: “Perché il bene pubblico è diventato un bene comune”. “Siamo molto bravi a denigrarci, - conclude Arena - ma l’Italia è un Paese straordinario. Se non lo custodiamo noi, chi lo farà per noi? Questo è il senso di essere custodi della bellezza: essere responsabili verso chi è venuto prima di noi e chi verrà dopo, sapere che non siamo padroni della Terra”.

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