Il viaggio è un elemento fondamentale della condizione umana, trasformazione, separazione e terra di nuovi incontri. Ma è anche sinonimo stesso della vita, dell’esistenza terrena. Omero, quasi tremila anni fa, anticipò il significato del viaggio nell’Odissea, suggerendo temi mai tramontati: il piacere della scoperta, la curiosità, la nostalgia, il dolore della separazione e la gioia dell’incontro.
Separazione e incontro, due pilastri della vita che la caratterizzano fino in fondo più di ogni altra cosa. “Ogni incontro implicava una separazione, e così sarebbe stato finché la vita fosse stata mortale. In ogni incontro c’era un po’ del dolore della separazione, ma in ogni separazione c’era anche un po’ della gioia dell’incontro”, ha scritto l’autrice Cassandra Clare, nota per i suoi romanzi fantasy. Effettivamente il viaggio ha in comune con l’esistenza proprio il connubio tra questi due elementi, che si intrecciano e rendono l’uno complementare all’altro. Quando si parte si lascia sempre qualcosa dietro di sé e, durante il cammino si acquisisce qualcos’altro, che sia questo un insegnamento, un legame, un nuovo pezzo da incastrare alla vita.
Ho sempre sentito parlare dei cuneesi come “bugia nen”, persone molto resistenti ai cambiamenti, alle innovazioni e alle esperienze. Io credo che non sia proprio così, che dietro un luogo comune si nasconda un’altra caratteristica, quella dell’uomo di mondo. Durante le mie esperienze, le mie conoscenze, quando spiegavo da dove arrivavo, trovavo spesso espressioni interrogative, smarrite: “Dov’è Cuneo?”. Allora, con Google Maps, mostravo la città circondata dalla cerchia alpina, non lontana dai confini con la Francia: “Le vedete queste montagne? Sono bellissime, tantissime vallate, tutte così diverse tra di loro, solcano l’impervia barriera alpina. E di là c’è la Francia, è così vicina”.
La consapevolezza di arrivare da un posto poco conosciuto, e le cui bellezze sono ignote a molti, mi ha portato a cercare altrettanti posti lontani dal turismo di massa, che conservassero peculiarità, originalità e integrità. Fin dal passato, dalla storia alla letteratura, gli esempi di cuneesi che lasciarono tutto e andarono sono stati migliaia. Da coloro che partirono per nuovi mondi nel Novecento, a personaggi letterari più o meno noti. Uno fra tutti il personaggio pavesiano Anguilla, protagonista del romanzo “La Luna e i falò”, un trovatello rinvenuto sulla soglia del duomo di Alba. “Volevo andare lontano - diceva - ma che sia lontano, che nessuno del mio paese ci sia stato”. Così Anguilla viaggiò per diverse città delle Americhe, per poi tornare, dopo la seconda guerra mondiale, nel suo paese d’origine nelle Langhe, ma in ogni luogo non si sentì a suo agio: “Capii che quelle stelle non erano le mie”. Stelle che sono le stesse per tutti e disegnano una condizione, quella umana, comune per tutte le genti. “Questo paese, dove sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo - parlava Anguilla -. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto”. Pavese esprime così un concetto di portata sorprendente: la continuità umana, al di là dello spazio e al di là del tempo. Il viaggio frantuma i confini - fisici e non - e mette alla luce le profonde similitudini dei viventi.
Cuneo non solo è legata profondamente a Pavese e alle sue opere, un altro scrittore di fama mondiale apprezzò il capoluogo della Granda. Ernest Hemingway si fermò nella città l’8 maggio 1954, ordinando un bicchiere di whisky e una confezione di Cuneesi al rum alla pasticceria Arione. Hemingway l’Italia la conosceva bene: aveva combattuto sul fronte italiano durante la prima guerra mondiale, tra Schio, il Pasubio e Bassano del Grappa. Un autore che aveva vissuto in viaggio e che aveva il nostro Paese nel cuore: “Se volete viaggiare in allegria, come piace a me, trovatevi dei bravi italiani come compagni di viaggio”. Tra le terre della Spagna, dell’Africa, di Cuba, Hemingway scelse anche Cuneo come tappa nella sua vita. Una vita impetuosa, conclusasi con il suicidio nel 1961. Tra le sue opere principali, “Il vecchio e il mare”, premiata nel 1953 col Premio Pulitzer: “Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle, le cose belle non succedono”.
Un viaggio che oggi per molti diventa quotidianità. Nella postmodernità si studiano mezzi per raggiungere maggiori distanze in più brevi spazi di tempo. L’uomo si sposta molto più frequentemente rispetto al passato e non solo per svago, ma anche per lavoro, per ricongiungersi agli affetti. La presenza capillare del web e dei social network ha permesso alle relazioni umane di consolidarsi, nonostante le distanze. Ci troviamo insomma nel tempo della “modernità liquida”, così definita dal sociologo polacco Zygmunt Bauman nel 1999. Una modernità in cui “l’unica sua costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza”. Nelle schiere di pendolari cuneesi, che tutte le mattine - tra disagi, ritardi e frenesia - viaggiano verso Torino o altre città per lavoro, il viaggio diventa costante, una routine. Ma anche lì, guardando fuori dal finestrino nei freddi pomeriggi d’inverno si possono notare i tramonti infuocati dietro il Monviso. In uno di questi viaggi mi è venuto in mente un frammento del racconto di Dino Buzzati “Inviti superflui”: “Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione”. Speranze spesso soffocate da mari di incertezze, strette tra i passeggeri pressati dei treni, ma che si manifestano ogni tanto dietro i maestosi colori dei cieli sopra la nostra terra.
Il desiderio di viaggiare che però si fonde con la ricerca di mettere radici. E in questo sento di condividere il destino di quanti secoli fa se ne andarono verso altre terre ancora, senza sentirsi mai a casa. “Quanti partirono da qua - mi raccontava una negoziante di Entracque - e quanti tornarono delusi, mai accettati fino in fondo e integrati nei posti in cui andarono”. Una condizione di precarietà e affannosa ricerca di un luogo che si possa chiamare casa che affrontano molti di noi oggi, tra relazioni a distanza, precarietà lavorative e cambi improvvisi nella vita. Una condizione eterna di passeggeri, tra mille treni, aerei, saluti in lacrime alle stazioni. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”, scriveva Pavese ne “La Luna e i falò”. Ma se il mondo è popolato da tanti piccoli paesi, allora forse è vero che è il mondo stesso la vera e unica casa. Il viaggio, da questo punto di vista, insegna che i confini sono spesso mentali, che sia possibile trovare nel mondo tanti luoghi familiari.
L’autore Milan Kundera, scomparso lo scorso 11 luglio, scriveva che “in greco, «ritorno» si dice nóstos. Álgos significa «sofferenza». La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare”. Ritornare non in un luogo specifico, non in un tempo specifico, ma all’incrocio preciso di quelle possibilità che hanno reso possibile un determinato momento della nostra vita, con emozioni irripetibili. Viaggiare significa forse questo in fondo, accorgersi dell’irripetibilità di ogni singolo istante nella vita, per trascorrerlo senza macigni sul cuore.