Pubblicato in origine sul numero del 16 giugno del settimanale Cuneodice - ogni giovedì in edicola:
Ci sediamo nel dehors del Caffè di Città a Busca, in via Umberto I. Veronika Chekan, 28 anni, è danzatrice specializzata in danze caraibiche e Nataliia, 49 anni, ha con sé un percorso che attraversa la psicologia per approdare alla regia teatrale. Entrambe sembrano più giovani di quasi dieci anni. Parlano dello spettacolo e di quello che fanno in maniera molto dettagliata, specifica. Lavoravano in un importante centro di ricerca teatrale a Kiev, capitale dell’Ucraina.
Se il contesto storico-geografico non fosse quello che è, penserei di essere a Milano, in uno dei teatri principali, a intervistare due artiste di rilievo internazionale in residenza lì. È così che dovrebbe essere. È così che sarebbe, normalmente. Quando parlano, Veronika risponde per sé e traduce per Nataliia: “Abbiamo iniziato a lavorarci a ottobre dello scorso anno, insieme ad altri partecipanti. Il progetto prevedeva che ognuno mettesse in scena una breve performance per narrare la propria storia, esplorando e mettendo in luce quel che siamo nel nostro meglio e nel nostro peggio. L’obiettivo è sempre stato quello di mappare una sorta di percorso che portasse lontano dai traumi personali, del passato, e verso la luce. All’inizio, tutto avveniva nel contesto di una dimensione intima e individuale. Poi, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ci siamo rese conto che il progetto aveva messo radici nell’esperienza collettiva, contemporanea. Il contesto è cambiato e così anche il lavoro di ricerca e lo spettacolo che si va a delineare. Adesso non guardiamo più al passato, al singolo. La ferita è ora ed è di tutte, di tutti. Ci siamo date il compito di indagare le vie e le possibilità del teatro, della performance fisica, attraverso le quali raccontare il trauma del presente e poterlo elaborare. Più che uno spettacolo, stiamo cercando di creare un metodo. L’Italia, dove il senso del sacro e il simbolismo sono così radicati e diffusi, ci ha aiutate a mettere a fuoco una delle domande per noi più importanti: come restituire a ciò che è stato profanato la sua sacralità, la sua dignità. Come ritrovarla”.
Degli altri partecipanti del progetto dicono che “alcuni sono rimasti a Kiev, mentre altri, come noi, sono scappati”. Non hanno amici stretti o familiari che combattono, ma conoscono persone che lo fanno. “Mio figlio è in Svezia - dice Veronika -, e Nataliia ha due figli: il maggiore è a Kiev, mentre il minore, di 16 anni, a Berlino. Alcuni soldati russi hanno usato la casa di Nataliia quando era già vuota. Dall’ex marito, anche lui attivo al centro di ricerca teatrale, ha saputo che hanno rubato la televisione, una padella buona - dice quasi ridendo -, e sparpagliato tutta la bigiotteria su un tavolo. L’unica cosa di valore era la fede, rubata anche quella. Ci ha sorprese scoprire che le nostre condizioni di vita erano migliori di quelle della maggior parte dei russi. Pensavamo di essere nella media, e invece a quanto pare stavamo molto meglio di loro. Malgrado la situazione attuale, ci siamo sentite grate per quello che abbiamo avuto, per la vita che abbiamo potuto fare. Poi abbiamo iniziato a dirci: ‘Buona notte, a domani. Probabilmente no, ma buona notte lo stesso’”.
Il figlio sedicenne di Nataliia è stato accolto come profugo da una famiglia di Berlino e iscritto a una scuola russo-tedesca che si è offerta di accogliere i giovani rifugiati ucraini e inserirli a scuola, dove possono imparare il tedesco e seguire la maggior parte delle lezioni, che si tengono in russo. L’istituto è parte di una rete presente in Germania già dal ‘93, sul territorio dell’allora Unione Sovietica, e si propone come scuola internazionale bilingue. “Danyil però - mi dice Veronika -, ha preferito ritirarsi, perché ‘nella scuola c’è una strana atmosfera’, ha detto a Nataliia. Poi l’insegna dell’istituto porta i colori della bandiera russa e fare lezione in russo, ormai, lo mette a disagio. Abbiamo sempre alternato russo e ucraino senza pensieri, ma adesso anche la lingua è diventata una scelta etica e uno strumento di oppressione”.
Se prima i cittadini dell’uno e dell’altro Stato si mescolavano con leggerezza, ora l’unico pensiero è diventato la conservazione, e l’identità si conserva nella mente, nei luoghi, nella lingua. Conservare. Difendere? Quando scoprono che le bandiere della pace rappresentano lo stop all’invio di armi, Veronika chiede, un po’ incredula: “Volete farci combattere a mani nude? Senza armi perderemo. Perderemo e basta. E la violenza continuerà, con o senza armi, anche dopo che avremo perso. Vogliamo proteggere i nostri territori. Non possiamo farcela senza armi”. Interviene anche Nataliia: “Negarci le armi è come vedere un bambino picchiato per strada e gridare: ‘Non aiutatelo! La violenza non è ammissibile’!”. Si commuovono, mi ringraziano per le domande un po’ scomode. Nessuno sembrava farle, e loro volevano tanto rispondere.