MONDOVÌ - Blue Record, lo studio di Mondovì che ha visto passare la storia della musica

Il fondatore Danilo Dalmasso, medico di professione, si racconta tra ricordi e aneddoti. Memorabile l’incontro con Fabrizio De André, che registrò qui “Mis Amour”

Francesca Barbero 30/07/2022 17:25

Pubblicato in origine sul numero del 14 luglio del settimanale Cuneodice - ogni giovedì in edicola:
 
Danilo Dalmasso è un medico, un musicista ed è stato uno dei fondatori e l’anima del “Blue Record Studio” di Mondovì. Nel suo studio di registrazione sono passati i grandi cantautori che sono stati la storia della musica italiana, tra questi leggendario il passaggio di Fabrizio De André. Ma anche artisti internazionali come Alan Stivell, grande arpista folk francese, Mino Cinelu, percussionista dei “Weather Report”o il cantautore svedese Eagle Eye Cherry e sua sorella, la cantante e rapper Neneh Cherry. E tantissime band della scena locale.
 
Che cos’era il Blue Record Studio in una definizione? Com’è nato?
“Beh, è stato parte della mia vita. Lo studio è nato negli anni ‘80 in seguito all’esperienza al ‘Festival dei Saraceni’, manifestazione d’importanza internazionale. Io e gli amici Bruno Avico e Elvezio Garelli avevamo un appalto per registrare il Festival. Ed è lì che è nata la passione per la registrazione e l’idea di creare il nostro studio, il Blue Record Studio. Inizialmente era a Pianfei, nel garage di Elvezio. Poi, pochi anni dopo ho deciso di spostarlo nella casa dove vivevo, a Mondovì, perché per me Pianfei, anche se dista solo pochi chilometri, era lontano. Se si rompe un mixer o un’altra apparecchiatura e devi aggiustarla, è più semplice e veloce se sei a casa tua perché lì hai tutto il necessario per farlo. Una volta che lo studio è stato spostato a Mondovì, Bruno e Elvezio sono usciti perché non avevano la passione che avevo io e c’erano tanti investimenti da fare. Ma siamo tutt’ora amici e fratelli, lo siamo sempre stati. Elvezio, nello studio, era la mente tecnica che mi ha insegnato tutti i rudimenti di elettronica e ad aggiustare la strumentazione. Bruno, invece, mancato anni fa, era un grande appassionato di musica antica e costruiva liuti e clavicembali, con lui suonavo in una band”.
 
Sei sempre stato appassionato di musica?
“Sì, ho iniziato a suonare intorno ai 15 anni con la mia prima band, i “Flying Tigers”. La musica è sempre stata presente in famiglia. Mio nonno era un contadino, di quelli che amavano ritrovarsi a tavola con gli amici a cantare. Mia madre, anche lei contadina, amava la musica al punto da comprare un pianoforte anche se non sapeva suonarlo, semplicemente perché ‘in casa ci vuole’. Per lei la musica doveva essere parte della vita e me ne ha fatto dono”.
 
Sei un musicista, hai creato uno studio di registrazione ma sei anche un medico. Medicina e musica sembrano così distanti. Perché questa scelta?
“Perché no? Per anni sono stato medico di medicina generale e medico sportivo. E ora che ho abbandonato la prima, e mi dedico solo alla seconda, mi manca da matti il mio lavoro. Jannacci, che era anche un bravissimo cardiologo, diceva che le due discipline non sono tanto diverse. La medicina è un’arte, in fondo. Un’arte che racchiude l’improvvisazione tipica del jazz, nei momenti in cui ti trovi a fronteggiare un’emergenza, la matematicità e la perfezione di Bach, che sono necessarie sempre, e tanti altri generi. Non sarai mai un bravo medico se ti limiti allo studio, da solo non basta. Ci vuole qualcosa in più. È lo stesso discorso per la musica: se ti limiti a suonare benissimo o ad essere un esecutore perfetto, beh, allora saprai suonare ma non sarai mai un bravo musicista perché ti manca una cosa essenziale: il cuore”.
 
Metterci il cuore. Nella musica ci sono l’amore e l’emozione, la vita e la morte. Un po’ come nella medicina?
“La musica è una compagna pazzesca, sempre, e in qualunque stato d’animo tu sia. Ad esempio se sono triste ho bisogno di sentire una cosa, se sono allegro ne devo ascoltare un’altra, se voglio riflettere... un’altra ancora. La medicina non è poi così diversa perché anche lì ci sono tutte queste cose”.
 
E poi in musica e in medicina è necessaria anche la componente artigianale. Penso al cucire una ferita o al riparare una corda della chitarra. Due operazioni all’apparenza distanti. O forse no?
“La pratica e il sapersi arrangiare con quello che si ha, nel momento in cui diventa necessario aggiustarsi, sono necessarie sia nella musica sia nella medicina. Le due cose non sono così lontane. Almeno io, da medico e musicista, non le vedo così distanti”.
 
Oltre a tantissimi gruppi della scena locale, al Blue Record sono passati grandi artisti e cantautori che hanno fatto la storia della musica italiana. Come Fabrizio De André. Avrai sicuramente degli aneddoti da raccontare.
“Te ne racconto uno, che è il più significativo di tutti. Era l’11 gennaio 1999 e Ivano Fossati stava registrando in studio. Arrivo ed è agitatissimo, mi dice soltanto che deve andare via. Quando gli chiedo il motivo mi risponde: ‘È morto De André’. Faber era passato al ‘Blue Record’ per registrare ‘Mis amour’, ballata contenuta nell’album ‘A toun souléi’ dei Troubaires de Coumboscuro. In quell’occasione lui e Dori Ghezzi rimasero tre giorni con noi. Cenavamo insieme e Dori andava nell’orto con mio padre a raccogliere le erbe per preparare le tisane a Fabrizio, non voleva che bevesse”.
 
Com’era Fabrizio De André?
“Era la semplicità. Io e te ci siamo mai visti e conosciuti prima di oggi? Ma siamo qui, seduti sul divano, a parlare tranquillamente. De André era esattamente così, non era diverso da noi due in questo momento. Del resto con tutti i grandi artisti ho sempre avuto un rapporto di semplicità incredibile perché quelli davvero grandi, a parte qualche eccezione, sono così. E non ho mai avuto problemi a lavorare con loro, trovandomi sempre in sintonia. A De André suggerii di andare a registrare in una stanza che aveva un risonanza perfetta per la sua voce e la sua risposta, fidandosi, fu semplicemente ‘ok, qui sei tu che comandi’. Il risultato gli piacque tanto, al punto che mi disse che gli sarebbe piaciuto tornare a registrare qui”.
 
E Fossati?
“Ho il ricordo di una serata di gennaio in cui ci hanno portato in giro su un Land Rover con il tettino aperto. Quella sera abbiamo bevuto tanto, ed eravamo così ubriachi che non ci siamo quasi accorti del freddo. Abbiamo finito la serata in una birreria di un amico a disquisire sui Rolling Stones, senza nemmeno sapere che stavamo dicendo. Fossati mi manda i saluti ancora adesso”.
 
Sei anche un collezionista con una grande passione per gli oggetti e per l’analogico. E hai portato questa tua passione all’interno del “Blue Record”. Una caratteristica che lo rendeva unico erano proprio le sue strumentazioni analogiche, poi affiancate ad altre digitali. È un suono migliore quello analogico?
“Negli anni ho collezionato davvero tantissimi oggetti, li compravo e li portavo nel mio studio dando sfogo a questa mia passione. La musica analogica suona meglio ma non so dirti per quale motivo. Non ho mai voluto pontificare sul perché. Se hai una buona strumentazione, l’analogico suona meglio e basta. Il suono è vivo, e forse è questo uno dei motivi”.
 
Non ti ho ancora chiesto perché lo studio si chiamava “Blue Record”.
“Il nome è legato al mio grande amore per il blues. Ho sempre amato il blues e la sua essenzialità, più del jazz che è troppo complicato. Suono ormai da più di dieci anni con i “Basin Blues Band”, un nome che è un doppio senso perché il basin in piemontese è la bacinella ma è anche il nome della via principale di New Orleans, quella ‘Basin Street’ dove si fa il blues. Il nostro è un blues molto particolare e costruiamo noi i nostri strumenti utilizzando oggetti di recupero, ad esempio il ‘basin’, il nostro contrabbasso, è fatto con una bacinella, un manico di legno e del filo da pesca al posto delle corde. Quando andiamo in giro a suonare la gente non ci prende sul serio. Poi però iniziamo a suonare. In autunno uscirà il nostro primo disco”.
 
Il “Blue Record Studio” è stato chiuso nel 2013. Perché non esiste più?
“Semplicemente perché per me non aveva più senso continuare. Anche se mi manca molto”.

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