Sindacati in piazza ad Alba contro il caporalato: “Serve un protocollo Saluzzo per il Piemonte”
La proposta dell’assessore Bongioanni accolta dai confederali: “Ma non parliamo di mele marce. Chi vende bottiglie a 80 o 40 euro non può pagare 3 euro all’ora”Sfidano un clima rovente, nel vero senso della parola, per dire insieme no allo sfruttamento del lavoro agricolo. Circa trecento persone nella manifestazione convocata dai sindacati in piazza Duomo, ad Alba: l’appuntamento è alle ore 14, un orario proibitivo non solo per molti che a quell’ora lavorano, ma anche per chi cerca di resistere sotto il solleone.
Più di uno degli intervenuti lo sottolinea: queste sono le condizioni in cui si raccolgono l’uva e la frutta nella nostra provincia. Insieme ai sindacati confederali e alle loro diramazioni agricole, Fai Cisl, Flai Cgil e Uila, ci sono associazioni come Libera e Legambiente, il vescovo Marco Brunetti e diversi sindaci del territorio.
A nome della Regione interviene l’assessore all’Agricoltura Paolo Bongioanni, che lancia la proposta di estendere il “protocollo Saluzzo” per l’accoglienza degli stagionali alle Langhe e all’intero Piemonte. Grazie all’intesa promossa dalla Regione nel 2020, nel distretto della frutta si è affrontato per la prima volta in modo organico il tema degli alloggi per i lavoratori immigrati. “Sono stati generati 250 posti” ricorda Bongioanni, formulando ai segretari generali delle organizzazioni sindacali l’invito ad iniziare il percorso al più presto: “Ho visto ciò che gli imprenditori del vino hanno saputo costruire. Non possiamo permettere che delle mele marce vengano a lordare il lavoro di queste persone”.
“Non abbiamo un problema di mele marce, abbiamo un problema di sistema” ribatte Giorgio Airaudo della Cgil, che denuncia: “Su cinquemila lavoratori nelle vigne e nei frutteti, il 50% sono soggetti a caporalato. È come se ci fosse caporalato in Ferrari”. Polemiche a parte, ad Airaudo piace la proposta di un protocollo Saluzzo per il Piemonte: “Latina e Alba - dice - sono più vicine di quanto dica la distanza chilometrica. Siamo di fronte a vere e proprie mafie, sono mafiosi i caporali e i loro mandanti e vivere di economia mafiosa abbassa il potenziale economico di un territorio”. Servono interventi per organizzare gli alloggi, il trasporto, i servizi, ripetono Airaudo e gli altri leader sindacali, ma serve anche redistribuzione: “Chi vende a 40 o 80 euro una bottiglia non si può pagare 3 euro all’ora”.
Lo stesso appello arriva dal segretario generale della Cisl piemontese Luca Caretti: “Imprenditori che godono del traino di un trend di sistema hanno il dovere di garantire che il made in Italy sia realizzato in modo rispettoso dell’ambiente e soprattutto dell’uomo. Vorremo che la stessa pressione fatta con la protesta dei trattori mesi fa fosse realizzata oggi: questo accade anche perché ci sono aziende disponibili a utilizzare questi poveri cristi”. Giovanni Cortese (Uil Piemonte) snocciola i dati: “In Italia si stimano 3 milioni di lavoratori invisibili e 175 mila in Piemonte. Di questi il 16,8% lavorano in agricoltura dove ci sono 430mila lavoratori sfruttati: per numero di inchieste il Piemonte, con 29, è secondo solo al Lazio che ne ha 30”. I sindacati chiedono l’abolizione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione e una stretta su chi procura braccia alle aziende: “È urgente verificare le caratteristiche degli intermediari, delle cooperative spesso di comodo: bisogna spezzare le complicità e favorire le assunzioni dirette e la mutualità vera, non quella di chi non ha un metro di terra”.
Concetti ribaditi anche da chi organizza il lavoro sindacale nel settore agricolo, i segretari provinciali di Fai Cisl Antonio Bastardi, di Flai Cgil Loredana Sasia e di Uila Alberto Battaglino. Per Confindustria è presente in piazza il direttore provinciale Giuliana Cirio, che promuove l’idea del protocollo Piemonte: “Nessuno, né dalla parte degli imprenditori né da quella dei lavoratori, può accettare che le condizioni siano quelle che abbiamo visto in qualche caso. Bisogna avere strumenti legislativi, perché il datore di lavoro è corresponsabile di ciò che succede nei campi, ma oggi non ha modo di controllare che chi lavora non sia sfruttato”.
Andrea Cascioli
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