Beni in disuso, la Granda ha un ‘tesoro’ da recuperare
Secondo lo studio di Fondazione CRC, sono 449 gli immobili che andrebbero riqualificati. In Italia il 60% è in abbandono e solo il 15% ha un valore commercialeSi fa presto a dire riqualificazione. Il processo di recupero degli spazi dismessi, dagli ex fabbricati industriali alle chiese sconsacrate, dalle caserme in disuso alle stazioni ferroviarie abbandonate, è uno dei grandi interrogativi che ogni amministrazione comunale si trova di fronte.
Secondo l’indagine ‘Rigenerare spazi dismessi. Nuove prospettive per la comunità’, realizzata dalla Fondazione CRC in collaborazione con la Fondazione Fitzcarraldo, ci sono in tutta Italia oltre 110mila beni immobili di valore culturale a rischio, con una densità pari a 33,3 unità ogni 110 kmq. Oltre il 60% di questo patrimonio è oggi in stato di abbandono o di grave sottoutilizzo.
Il valore stimato di questi fabbricati è di circa 340 miliardi di euro. Un’enormità, ma solo ‘in potenza’ e soltanto se non teniamo conto di due variabili fondamentali: da un lato le spese per la manutenzione ordinaria gravanti sull’erario pubblico (1,5 miliardi all’anno), dall’altro il fatto che appena il 15% di questo immenso tesoro immobiliare ha un effettivo valore di mercato.
“La storia dei privati che fanno la fila per accaparrarsi beni storici è una favola. Per questo tutte le strategie del passato basate sulle cartolarizzazioni e sul tentativo di ‘fare cassa’ si sono dimostrate fallimentari” spiega l’architetto Luca Dal Pozzolo, co-fondatore della Fondazione Fitzcarraldo. Le istituzioni locali, il più delle volte, hanno bilanci troppo limitati per farsi carico di interventi tanto complessi, e così i beni in disuso finiscono per ‘uscire dai radar’ delle amministrazioni. Emerge così un’assoluta sproporzione tra la necessità di intervenire per salvare questi edifici e le risorse pubbliche per farlo: questo è il dato di fatto essenziale, a cui si aggiungono altre problematiche, come la difficoltà nel trovare candidature per i bandi.
Anche là dove si interviene, poi, non è detto che i risultati siano quelli sperati: “Veniamo da una stagione in cui si è visto un uso fortemente distorto dei fondi strutturali. Si sono restaurati beni senza sapere a cosa dovessero servire, con conseguenti casi di sottoutilizzo pure a fronte di interventi patrimoniali molto consistenti”. Le costruzioni con un valore storico-artistico, chiarisce il rappresentante di Fitzcarraldo, non possono diventare “qualunque cosa”: non tutte le chiese sconsacrate, per esempio, si prestano a ospitare delle spa, se esiste un tema di preservazione del patrimonio oltre che di collegamento con l’uso storico. Che fare, quindi? La chiave per un recupero di successo è fare in modo che i beni recuperati interagiscano con il tessuto sociale. Per questo le comunità devono essere chiamate a condividere le scelte sugli usi a cui ci si propone di destinare gli spazi: troppo spesso, invece, il progetto architettonico precede il ragionamento su cosa fare, con il rischio che un restauro affrettato pregiudichi soluzioni migliori per il territorio.
In provincia di Cuneo, la Fondazione Fitzcarraldo ha censito insieme al Centro Studi e Innovazione di CRC la bellezza di 449 beni dismessi in 126 comuni. Non si tratta di un censimento reale, precisano gli autori della ricerca, perché mancano i beni privati e quelli ecclesiastici, così come le borgate alpine abbandonate e altro ancora: numeri che verosimilmente porterebbero il totale al di sopra del migliaio. Solo inserendo le segnalazioni degli enti territoriali, del resto, si può già arrivare a una proiezione di circa 730 immobili.
In termini geografici la diffusione del patrimonio da riqualificare è piuttosto uniforme sul territorio della Granda, con una minore incidenza nelle aree collinari orientali già oggetto di importanti processi di valorizzazione turistica e produttiva. Mondovì e Cuneo contano il maggior numero di beni censiti, rispettivamente 32 e 27, seguite da Borgo San Dalmazzo, Boves, Bra, Ceva, Fossano, Racconigi, Valdieri e Vinadio: in generale, i comuni con una maggior concentrazione di fabbricati in abbandono coincidono con i centri più grandi o con quelli che hanno avuto un ruolo militare rilevante in passato. Rispetto alla tipologia di beni, troviamo soprattutto edifici in origine utilizzate per l’erogazione di servizi (come le ex scuole o gli ex ospedali), complessi militari, chiese, aree industriali dismesse, vecchie stazioni e strutture ferroviarie. Nella ricerca sono stati individuati sette casi di studio scelti perché rappresentativi sia delle diverse funzioni storiche che delle caratteristiche geografiche degli oltre 7mila kmq della Granda. Si tratta dell’ex convento di Santa Maria Maddalena ad Alba, dell’ex Mulino Gione a Borgo San Dalmazzo, del fabbricato ex Santa Croce a Cuneo, della chiesa di Santa Chiara a Mondovì, l’ex Stracceria Cartiera a Ormea, della Tettoia Mercatale a Racconigi e del Forte Albertino a Vinadio.
Per ognuno di questi sono state evidenziate potenzialità e criticità, e possibili scenari di recupero. Occorre infatti tenere presente, osserva ancora Dal Pozzolo, che “non esistono approcci standard: il modo con cui si interviene sulla reggia di Venaria o di Racconigi non ha nessuna comparabilità con l’intervento su una chiesa abbandonata o su un piccolo fabbricato industriale”.
La Fondazione CRC, ha ricordato il suo presidente Giandomenico Genta, si trova da poco alle prese con una nuova sfida in tema di recupero: “Abbiamo acquistato l’ex Frigorifero Militare di Cuneo e avremo necessità di raccogliere idee per fare di quel luogo il simbolo del recupero di uno spazio per troppo tempo emblema di degrado in città”. Connesso dal punto di vista geografico e ‘ideale’ a questo intervento è quello sull’edificio dell’ex ospedale Santa Croce, di cui ha parlato l’assessore del comune di Cuneo Cristina Clerico: “Attorno al Santa Croce, dove stiamo trasferendo la biblioteca civica, puntiamo a costruire un vero e proprio distretto culturale, tra l’università e il museo civico in San Francesco”.
Andrea Cascioli
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