Donazione di organi, il Santa Croce all’avanguardia in Italia: “È l’aspetto umano a fare la differenza”
Le opposizioni sono solo il 20%, un terzo in meno della media nazionale. E da quest’anno c’è anche la possibilità di prelevare organi a cuore fermoTra i molti primati che l’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo può vantare, ce n’è uno condiviso con l’intero territorio di appartenenza. Riguarda le donazioni di organi, che a Cuneo registrano, da sempre, tassi più elevati rispetto alle medie nazionali: nel 2023 le opposizioni al trapianto sono state solo il 25%, quest’anno il dato parziale è ancora in calo, al 20%. Quello italiano, per fare un paragone, vede un 30,5% di no.
Medici e infermieri sanno che dietro a quei no ci sono ragioni umane, da comprendere: ad occuparsene sono la dottoressa Federica Lombardo, medico di rianimazione e coordinatrice ospedaliera per la donazione di organi e tessuti, e l’infermiera Patrizia Rosso, esperta nel procurement di organi e tessuti. Hanno un compito molto difficile, quello di avvicinare le famiglie nel momento più tragico, quando non ci si può più aggrappare a nessuna speranza. Il cosiddetto “silenzio assenso”, nella forma della non opposizione, vale soltanto per le persone sole che non si sono mai espresse. Altrimenti la legge impone, in assenza di un’indicazione data dal paziente in vita, di confrontarsi con chi era prossimo alla persona: coniugi o conviventi, figli maggiorenni, genitori o eventuali tutori legali.
“Dobbiamo portare queste persone a scegliere, facendosi portavoce della volontà del loro caro” spiega la dottoressa Lombardo. I donatori, nella maggior parte dei casi, sono pazienti della terapia intensiva, ricoverati per traumi o eventi cerebrali che sfociano nella morte encefalica: c’è chi è vittima di ictus o arresti cardiaci non rianimati in tempo, ma c’è anche chi muore all’improvviso, per un incidente. In tutte queste situazioni si entra nella vita di persone sconvolte dal dolore e bisogna saperlo fare in punta di piedi: “La comunicazione nel tempo di cura è importante e a volte apre uno spiraglio nella donazione. Questo ha portato negli ultimi anni a un calo delle opposizioni” conferma la dottoressa. L’infermiera Rosso aggiunge: “L’accoglienza è alla base di tutto e purtroppo, in alcuni ambiti, capita di dover decidere nella stessa giornata. Comprendere questo passaggio non è semplice: vediamo un corpo caldo con un cuore che batte”.
In una società che tende ad espellere la morte dal suo orizzonte e a medicalizzare il dolore, non è facile capire cosa sia la fine della vita. Dal punto di vista medico, ciò coincide con la morte cerebrale: “Esistono casi in cui il danno encefalico è gravissimo - spiega il dottor Domenico Vitale, direttore della Rianimazione - ma non determina la morte definitiva del cervello. Possono esserci parti che ancora continuano a funzionare, connesse al mantenimento dell’attività cardiaca o respiratoria, che non hanno però a che vedere con la vita di relazione”. Chi è in queste condizioni, in altre parole, non può tornare davvero a vivere. Non siamo più, chiarisce Vitale, nelle ipotesi in cui si può ancora sperare in un risveglio contro ogni pronostico: “C’è molta aneddotica di basso livello. Ma quando si arriva a una diagnosi di morte encefalica o di irreversibilità del danno encefalico, ci si arriva con procedure diagnostiche di elevatissima affidabilità”.
La ritrosia rispetto alla donazione può avere ragioni psicologiche profonde: “La paura che a volte riferiscono i parenti - osserva la dottoressa Lombardo - è legata alla deturpazione del corpo. In realtà il corpo viene suturato e composto con la massima cura”. È qui che l’umanità e la capacità di ascolto dei sanitari fa la differenza, sottolinea il dottor Giuseppe Coletta, direttore del dipartimento Emergenza e Aree Critiche: “La donazione è una risposta corale che prevede indagini diagnostiche e interventi di sala operatoria. Possiamo avere le migliori competenze cliniche, ma se manca la partecipazione a un evento così drammatico, le nostre competenze non servono a nulla. A fare la differenza è questo aspetto umano: comunichiamo ai parenti quello che non vorrebbero mai sentirsi dire, bisogna avere disponibilità d’animo per farlo”.
Fin dai primordi, l’ospedale cuneese ha sempre trovato una vocazione al dono nella popolazione: il primo trapianto fu effettuato nel 1981, quando era possibile intervenire solo sui reni. Da allora la struttura si è specializzata e dotata di un’organizzazione capillare, anche grazie ai volontari dell’Aido. Lo scorso anno ci sono state 15 donazioni, a fronte di 24 segnalazioni dei sanitari: in sei casi c’è stata un’opposizione, in altri tre è emersa un’inidoneità del possibile donatore. In tutto sono stati donati a nuova vita 29 reni, 15 fegati, 57 cornee: cuori e polmoni, gli organi più difficili da trapiantare, hanno numeri più ristretti.
La buona notizia è che la ricerca fa passi da gigante. Rispetto a una volta, per esempio, si è ampliato il range di età dei donatori, perfino sul cuore - ed è bene ricordare che per fegato e reni non ci sono limiti di età. In caso di patologie pregresse, per esempio le persone guarite da un tumore, c’è comunque la possibilità di effettuare una valutazione sull’idoneità. Da quest’anno è partito anche un programma di donazione a cuore fermo: una novità assoluta che permetterà di salvare ancora più vite. Il primo caso, a gennaio, ha visto il trapianto anche di cuore e polmoni. In altri cinque sono stati prelevati solo gli organi addominali.
Grazie a questi progressi, oggi il Santa Croce è il secondo centro trapianti più importante della regione dopo l’ospedale Molinette di Torino, per quanto riguarda la donazione a cuore fermo. “Sta accadendo qualcosa di inaspettato fino a un anno fa” racconta il dottor Vitale: “Quando i familiari cominciano a intuire che la prognosi sarà sicuramente infausta, ci anticipano chiedendo se esista la possibilità di donare gli organi. Questo testimonia l’alto livello di sensibilizzazione che c’è a Cuneo”.
Andrea Cascioli
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