Sotto la (grande) panca la montagna crepa?
Le “Big Bench” spuntano come funghi, ma in rete si apre il dibattito: si tratta di un lodevole progetto per valorizzare il territorio o di una bieca operazione di marketing autoreferenziale? E cosa avverrà quando la moda del selfie svanirà?Le panchine giganti: un lodevole progetto per valorizzare il territorio o una bieca operazione di marketing autoreferenziale? Il dibattito è aperto. Nelle ultime settimane in rete hanno iniziato a fiorire articoli critici nei confronti delle Big Bench, le grandi panchine ideate da Chris Bangle, meta preferita dei selfisti compulsivi.
Come molti dei nostri lettori sanno, l’iniziativa del designer statunitense nasce a Clavesana nel 2010, per unire la creatività artistica alle eccellenze artigiane dell’area. Dodici anni dopo le mega panche hanno iniziato a diffondersi in modo capillare e, ad oggi, se ne contano 223, molte delle quali ubicate in provincia di Cuneo. In principio erano soprattutto nel territorio dell’Alta Langa, ma negli ultimi anni ne sono state installate parecchie nel Cuneese: Caraglio, Chiusa di Pesio, Limone Piemonte, Moiola, Peveragno, Pianfei, Robilante e Vignolo. L’ultima è stata inaugurata lo scorso 11 giugno sul Monte Murin a Roaschia. Parecchie installazioni si trovano anche in pianura, nel Saluzzese e nel Monregalese. La moda delle Big Bench ha contagiato soprattutto Piemonte e Lombardia, ma ora stanno arrivando nelle altre regioni d’Italia e nel resto d’Europa, dalla Polonia alla Spagna.
I motivi della rapida espansione sono da ricercare (anche) nel modus operandi dell’artista. Bangle ha fornito gratuitamente i disegni e le indicazioni per costruire le Big Bench, a poche condizioni vincolanti: che a sostenere il progetto fossero privati e non fondi pubblici, che le panchine giganti fossero liberamente accessibili e venissero sistemate in punti panoramici, adatti alla contemplazione e nella natura.
Inoltre, aspetto non secondario, per restituire qualcosa in cambio, Bangle ha lanciato un progetto di beneficenza basato sul merchandising e sulla promozione legata alle grandi panchine. I proventi di questo progetto, almeno in linea teorica, vengono devoluti ai comuni che le ospitano. “Speriamo di vedere costruite molte altre grandi panchine per farci sentire di nuovo bambini quando ci arrampichiamo su di esse e che nuovi visitatori arrivino in questa zona, per godersi la vista spettacolare del paesaggio” ha recentemente affermato il designer americano.
In virtù di tutto ciò il progetto dell’artista, amplificato dalla grancassa dei media, ha goduto di credito tra amministrazioni locali e cittadini, ma ora sta nascendo un fronte, trasversale e compatto, che mette in dubbio la bontà dell’iniziativa.
Sulle colonne de “Il Dolomiti”, giornale online di Trento e del Trentino Alto Adige, è stato pubblicato un editoriale a firma di Pietro Lacasella che inquadra il problema della panchine giganti: “Una distorsione disneyniana della vita - scrive l’articolista -, in perfetta continuità con la programmazione turistica degli ultimi settant’anni, dove le peculiarità locali sono spesso state sacrificate per offrire al turista un’esperienza molto ludica e poco educativa”. Secondo l’autore del fondo, il problema è che abbiamo perso la capacità di raccontare: “Non riusciamo più a rendere seducente il territorio attraverso una narrazione accattivante, capace di cogliere ed evidenziare la poesia e il fascino degli elementi in esso già esistenti; degli elementi che lo rendono unico. Di conseguenza ci limitiamo a calare dall’alto oggetti vistosi, appariscenti, ma culturalmente vacui”.
E se in Trentino la narrazione l’hanno persa, figuriamoci dalle nostre parti, dove la capacità di raccontare non l’abbiamo mai avuta (salvo rare eccezioni). Una chiave di lettura sul dilagare delle Big Bench in Piemonte la offre Michele Corti, ideatore del sito “Ruralpini”, che di recente ha lanciato un sondaggio in chiaro dissenso ai panchinoni: “Il Piemonte, regione industriale (quando c’era l’industria), ha ampiamente trascurato la tutela del paesaggio e, sino a tempi recenti, si è preoccupata poco del turismo”. Corti ha una visione molto chiara sull’argomento: “Le panchinone (da lui definite “uno specchio dei tempi, dell’ipocrisia, della tendenza all’omologazione, alla massificazione, alla virtualizzazione, alla regressione puerile” n.d.r.) non possono prendere piede dove c’è una cultura del paesaggio, dell’identità paesaggistica. Un esempio viene dal Trentino. Una volta varcato il confine si nota quasi subito come spariscano le pubblicità stradali invasive e costruzioni che fanno a pugni con il contesto che offendono le valli. In Piemonte solo gli ambiti turistici ‘pregiati’ sono difesi da questa piaga”. A volte, aggiungiamo, nemmeno quelli.
Al momento in provincia Granda il fronte “no bench” non sembra aver preso piede. Eppure i tempi per una serena riflessione sull’installazione sistematica delle panchine giganti e sul rispetto del paesaggio in generale sembrano maturi. Chi è critico sostiene che le grandi panchine siano una pura operazione pubblicitaria - mascherata dietro la generosità di facciata - e attirino un turismo di prossimità mordi e fuggi, che poco lascia al territorio. Un’altra questione è data dallo smaltimento: cosa avverrà quando la moda del selfie sulla panchina variopinta svanirà, lasciando spazio a maxi strutture deterioriate e degradate? La rimozione sarà ancora a spese dei privati o dovranno pensarci i piccoli enti locali dai conti (spesso) in rosso?
Samuele Mattio
CUNEO Big Bench