Caporalato, due anni e mezzo all’indiano che ricattava i braccianti della frutta
Una ventina di suoi connazionali vennero costretti a pagare per poter lavorare nei campi tra Boves e BorgoNon esisteva ancora la legge sul caporalato, entrata in vigore solo a novembre 2016, quando i Carabinieri di Boves intervennero insieme ai colleghi del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Cuneo e a quelli della compagnia di Borgo San Dalmazzo per stroncare un giro di sfruttamento dei braccianti indiani nelle campagne cuneesi.
Era l’agosto 2015 e i militari, chiamati per sedare una banale lite a Boves, avevano portato alla luce un traffico illecito il cui presunto responsabile era ritenuto essere il 40enne J.S., cittadino indiano residente a Verona ma attivo nella Granda, che era stato denunciato per estorsione e tentata estorsione.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, J.S. era considerato una sorta di ‘fiduciario’ presso alcuni imprenditori agricoli della zona, per conto dei quali reclutava la forza lavoro stagionale impiegata nella raccolta della frutta. Tra giugno e agosto, l’uomo avrebbe fatto da tramite per l’assunzione di una ventina di suoi connazionali, imponendogli però il pagamento di un ‘pizzo’.
I braccianti, secondo le testimonianze raccolte, venivano costretti a pagare cifre comprese tra i 200 e i 400 euro sia per poter lavorare, sia per riavere indietro i loro passaporti dopo la registrazione dei contratti, di cui lo stesso J.S. si occupava.
Il pm Gianluigi Datta ha ritenuto che la responsabilità dell’indiano fosse comprovata dalle testimonianze degli stagionali e da quelle dei datori di lavoro, i quali a loro volta avevano riferito di essere al corrente delle lamentele sul conto di J.S. da parte di alcuni connazionali: “L’imputato faceva da tramite fra gli altri indiani e i responsabili delle aziende anche perché era l’unico a comprendere bene l’italiano” ha sostenuto il rappresentante dell’accusa, chiedendo la condanna a 4 anni.
Per la difesa, al contrario, dietro alle testimonianze talvolta confuse dei lavoratori si sarebbero celati semplici malumori personali con l’imputato, o fraintendimenti circa la natura delle dazioni: “L’ultimo teste afferma di aver dato a J.S. una ‘mancia’ di 200 euro per avergli trovato lavoro, di sua iniziativa. Forse è un uso in quella comunità, in ogni caso qualcosa di ben diverso da un’estorsione”.
Il giudice tuttavia ha ritenuto sussistente l’accusa formulata dalla Procura, condannando J.S. alla pena di due anni e cinque mesi di carcere.
a.c.
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