“Chi uccise Francesco Scarmato non poteva evitare l’incidente”: le motivazioni della sentenza
In luglio il giudice ha assolto l’infermiera responsabile dell’investimento. Il 17enne cuneese fu travolto su una bici, guidata da un amico, a San Rocco CastagnarettaUna tragedia che non si poteva evitare né prevedere. Queste, in estrema sintesi, le motivazioni che hanno portato nel luglio scorso il tribunale di Cuneo ad assolvere l’unica imputata per la morte di Francesco Scarmato.
C.M., infermiera dell’ospedale Santa Croce residente a Borgo San Dalmazzo, oggi 35enne, è la donna che la notte tra l’11 e il 12 luglio del 2019 guidava la Ford Focus che investì e uccise il 17enne cuneese. Scarmato, classe 2001, frequentava l’Enaip e aveva giocato a calcio con l’Olmo e l’Auxilium: sarebbe diventato maggiorenne appena un mese dopo. Quella sera d’estate, dopo aver fatto gli auguri di compleanno alla mamma, era uscito per ritrovarsi assieme ad alcuni amici nel campeggio di San Rocco Castagnaretta. Uno di loro, suo coetaneo, guidava la bici dove Francesco era salito come passeggero. Un altro amico li precedeva, anche lui in bici.
Intorno alla mezzanotte i ragazzi avevano attraversato l’incrocio in prossimità del cimitero di San Rocco, a semaforo lampeggiante. Una bici era passata indenne, l’altra, quella su cui viaggiavano Francesco e il suo amico, era stata centrata in pieno dalla Ford che arrivava da corso De Gasperi, diretta verso Borgo. La donna al volante aveva lavorato tutta la sera in sala operatoria all’ospedale di Cuneo: aveva appena avvisato il suo fidanzato che stava tornando a casa. L’avrebbe chiamato una seconda volta, poco dopo, per dirgli che era finita fuori strada nel tentativo, purtroppo vano, di scansare una bicicletta.
Un incidente senza particolari difficoltà ricostruttive, ha annotato nelle motivazioni della sentenza - pronunciata “per non aver commesso il fatto” - il giudice Elisabetta Meinardi. È indubbio che l’auto dell’infermiera viaggiasse al di sopra dei limiti di velocità, come pure che la bicicletta non avesse la luce accesa e che i due ragazzi non indossassero giubbotti catarifrangenti. In presenza di un semaforo non attivo, la bici che si immetteva su corso De Gasperi avrebbe dovuto dare la precedenza. “Se è vero che la definizione di ‘centro abitato’” si legge nella sentenza “male si attaglia alle caratteristiche specifiche di quel particolare tratto di strada, ciò tuttavia non può esimere gli utenti della strada dalla rigorosa osservanza del limite”. Nondimeno la violazione dei limiti di velocità da parte dell’automobilista “non è sufficiente a far presumere l’esistenza di un nesso di causalità tra tale violazione e l’evento verificatosi”: in altre parole, anche viaggiando al di sotto dei 50 chilometri all’ora l’auto non avrebbe evitato l’impatto. “Un impatto con un’auto che viaggia a 50 km/h - scrive il giudice Meinardi - avrebbe provocato comunque lesioni gravissime e verosimilmente fatali, soprattutto quando l’urto interessi un’auto e un ‘bersaglio’ non difeso, come un ciclista o un pedone”. In ogni caso “l’assenza di tracce di frenata appare compatibile con una velocità moderata”.
Un argomento speso da accusa e parti civili verteva sulla “prevedibilità” dell’incidente: era appena passata una bicicletta, dunque la guidatrice avrebbe potuto aspettarsi che ve ne fossero altre. Ragionamento che non appare fondato a chi ha formulato il giudizio: anzitutto “perché era circa mezzanotte e ciò poteva far assumere al transito del primo ciclista un carattere di eccezionalità”, in secondo luogo perché l’ipotesi che i ciclisti viaggino in gruppo è plausibile nel caso di gare sportive “ma non certo in un’ora posta nella tarda serata”. Anche considerando il fatto che l’area era poco illuminata e la bici senza fari accesi si può dedurre che “la conducente non poteva aver visto la bicicletta quando questa si apprestava ad attraversare, bensì se la trovò davanti pressoché al centro dell’incrocio”.
Il magistrato ritiene che la causa esclusiva del sinistro sia stato il comportamento del ragazzo alla guida della bicicletta. Questo sebbene nei suoi confronti il tribunale per i minori di Torino abbia già pronunciato sentenza di non luogo a procedere “per irrilevanza del fatto”, ritenendo che “l’evidente imprudenza doveva essere addebitata alla naturale leggerezza giovanile dettata da incoscienza, senza essere sorretta dalla consapevolezza di trovarsi in una situazione di pericolo”. Valutazione che il giudice di Cuneo non sembra condividere: “Deve pur valutarsi come la minore età del conducente della bicicletta (prossimo a compiere i 18 anni, ndr) non fosse tale da non permettergli di conoscere anche approssimativamente il codice della strada”, tanto più in presenza di “un grosso incrocio, segnalato e regolato da impianto semaforico”. Il fatto stesso di procedere in bici con una persona a bordo “determina di per sé una grave imprudenza” e così pure la presenza di aiuole spartitraffico con cespugli alti “avrebbe dovuto indurre una maggiore prudenza”.
Andrea Cascioli
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