Il padre infortunato ha fatto “di testa sua”: il figlio, datore di lavoro, viene assolto
Un singolare incidente nel cimitero di Acceglio ha portato a processo il titolare di un’agenzia di onoranze funebri di DroneroUn infortunio sul lavoro atipico, sia per il luogo - un cimitero - che per il coinvolgimento di un “padrone” e un “dipendente” sui generis. Uno, il padre, caduto da una scala a quattro metri d’altezza, mentre sistemava una lapide in vista di un funerale. L’altro, il figlio, finito davanti al giudice penale per quella disgrazia.
Era il “capo” e altro non c’è da dire, sosteneva la Procura. Il difensore la vede in tutt’altra maniera, perché è vero che il titolare era l’imputato, ma lo era, sostiene il suo avvocato, solo da un punto di vista formale: perlomeno quando aveva a che fare con suo papà, fondatore e proprietario per oltre un quarantennio dell’agenzia di onoranze funebri di famiglia, con sede a Dronero. “Era stato io a insistere per andare ad Acceglio, lasciando mio figlio ad occuparsi di un funerale a Dronero” ha raccontato in aula l’infortunato. Dopo aver preso una normale scala, con in mano una lastra di quasi trenta chili, era caduto all’indietro e si era fratturato il bacino e le vertebre lombari: “Ho fatto quel lavoro un milione di volte - ha detto - e non era mai successo qualcosa del genere. Ma dopo l’infortunio non me la sento più”. Un lavoro che da allora, onde evitare altri guai, si è deciso di demandare a ditte edili specializzate.
Ma questo non basta, secondo il sostituto procuratore Attilio Offman: “Il teste ci dice che il figlio era perfettamente consapevole del fatto che l’azienda non disponesse di strutture adeguate, per raggiungere i loculi a determinate altezze”. Ergo, già allora il titolare dell’impresa si sarebbe dovuto rivolgere a qualcuno: “C’è un problema di progettazione dell’attività lavorativa che è richiesta per tutte le imprese, anche familiari. Stiamo parlando di un’operazione non eccezionale, ma consueta e frequente”. Per l’imputato la Procura aveva chiesto una condanna a trecento euro di multa, tenuto conto dell’avvenuto risarcimento e anche del rapporto tra i due. Ma non era una semplice questione “di famiglia”, ha ribadito: “Il lavoratore infortunato porta con sé un costo per la comunità e la normativa ha lo scopo di evitare anche le conseguenze dal punto di vista del servizio sanitario”.
Tutto va calato nella realtà, replica l’avvocato Alessandro Ferrero: “Qui abbiamo un socio lavoratore che per 43 anni è stato il proprietario dell’azienda e ha insegnato al figlio il mestiere, e non ne vuole sapere di essere ‘regolato’ dal figlio”. Questo basta a sollevare il titolare dalla responsabilità, sostiene la difesa ricorrendo a un esempio: “È come la situazione dell’operaio specializzato, istruito alla perfezione dal datore di lavoro, che poi disabilita tutti i sistemi di sicurezza per operare sulle macchine”. Non siamo, aggiunge il legale, di fronte a un datore di lavoro che risparmia sulla sicurezza: “L’unico fatto certo che emerge dagli atti è un lavoratore che sa come dovrebbero essere fatte le cose e non vuole farle così”.
Il giudice Emanuela Dufour ha accolto la prospettazione del difensore, mandando assolto l’imputato perché il fatto non sussiste.
Andrea Cascioli
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