La dipendente tentò il suicidio, a processo un’ex direttrice di supermercato
Accuse di maltrattamenti contro la dirigente di un centro commerciale a Cuneo: “Alle colleghe diceva frasi come ‘questa deve morire in cassa’” racconta l’addettaInsulti e umiliazioni verbali anche davanti ai clienti, cambi di reparto “punitivi”, vessazioni contro i dipendenti che facevano colazione in un bar “non approvato” o che non sottoscrivevano la carta di pagamento dell’azienda. C’è tutto questo nel racconto di una donna che ha denunciato la sua ex direttrice, ora a processo con l’accusa di maltrattamenti.
È accaduto in un supermercato di Cuneo, dopo un cambio al vertice deciso dai superiori. Prima mai nessun problema, né sul posto di lavoro né con i colleghi, assicura la signora: “Amo il mio lavoro e l’ho sempre fatto nel migliore dei modi”. Con l’arrivo della nuova direttrice, però, la sua vita sarebbe diventata “un calvario”: “Mi portava a credere di essere sbagliata, a sentirmi piccola e umiliata”. Fino al punto che lei, qualche mese dopo, si era tagliata le vene in casa dopo aver saputo dell’ennesimo cambio di orario e mansione. Di quel gesto assurdo oggi non ricorda nulla, nemmeno di aver lasciato una nota su un quaderno nella quale spiegava le ragioni per cui si sarebbe data la morte: “All’epoca - ha detto - non prendevo farmaci e antidepressivi, è successo da quando sono finita in ospedale”.
Al giudice ora racconta di aver sentito parecchie volte la direttrice dire frasi come “questa deve morire in cassa”, “questa deve fare tutte le domeniche”, “questa mettetela sempre in chiusura”. Poi c’erano gli insulti, aggiunge: “falliti”, “dementi che non sanno fare il loro lavoro” e altro ancora. Una collega veniva presa di mira, con un nomignolo, perché troppo magra. Un altro perché svolgeva attività sindacale: “Quella faccia di m… non me lo mettete più rivolto verso di me” avrebbe detto in un’occasione, mentre il dipendente era in cassa. Chi stava alle casse non poteva muoversi, nemmeno in assenza di clienti. Alla direttrice, spiega chi l’ha denunciata, non piaceva che i sottoposti parlassero tra loro, neanche per questioni di lavoro: tanto che per comunicazioni di questo tipo, sovente, si preferiva telefonarsi tra i reparti.
Poi ci sarebbero stati i condizionamenti più sottili, ad esempio le punizioni a chi veniva trovato a far colazione in un bar diverso da quello aziendale, all’interno dello stesso centro commerciale. “Anche molti capi reparto sono andati via” afferma la testimone, portando l’esempio di uno di loro: “Disse che da quando c’era lei aveva perso dieci chili: gli imponeva di punire i colleghi che vedeva nell’altro bar, facendogli fare le domeniche e le chiusure. Lui ha dato le dimissioni”. Le sanzioni toccavano chi rifiutava di sottoscrivere una carta di pagamento aziendale, valida per la spesa: “Voleva imporre a tutti di sottoscrivere questa carta, io non volevo. Il giorno dopo la segretaria disse che eravamo obbligati a farlo, ‘perché sennò...’: io a maggior ragione avevo deciso di non farla, non potevano obbligarmi a comprare”.
La sua decisione di iscriversi a un sindacato, sostiene, non sarebbe stata estranea a quanto accaduto: “Una volta mi aveva detto che dove lavorava prima non sapevano cosa fosse il sindacato e che lei ne aveva paura”. Oggi è proprio un sindacato, la Cisl, ad essersi costituita in giudizio insieme a lei, come parte civile. Ai rappresentanti sindacali la dipendente si era rivolta dopo l’ultimo cambio di reparto, quando peraltro era già stato deciso che sarebbe stata trasferita in un altro punto vendita dell’azienda. Tutto inutile: “So che sotto Natale c’è stato uno sciopero, quando io era ancora in ospedale, ma tanti non hanno partecipato: per paura, dissero alcune colleghe”. La direttrice sarebbe intervenuta in quell’occasione e poi anche quando erano arrivati gli ispettori del lavoro: “Mi raccomando, dite che va tutto bene”.
Andrea Cascioli
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