Minacce con la pistola dopo l’incendio di un’abitazione: condannati due egiziani
La vittima, un imprenditore di Mondovì e connazionale dei due imputati, si era visto bruciare la casa solo il giorno prima di ricevere “l’avvertimento” dal clanDue anni e tre mesi di carcere, più 6mila euro di multa per ciascuno, è la pena inflitta dal giudice Emanuela Dufour a due egiziani accusati di tentata violenza privata ai danni di un connazionale.
Si parla di una minaccia a mano armata, di fronte al minimarket che la vittima, all’epoca, gestiva nel quartiere San Paolo di Cuneo: “Mi avevano fatto vedere la pistola, - ha raccontato l’imprenditore 49enne - poi M.H. aveva detto ‘se non togli la denuncia ammazzo te e i tuoi figli’. Da quel giorno ho ricevuto tante telefonate da numeri sconosciuti, erano loro parenti e dicevano di parlare a nome loro. Ora ho cambiato casa e non sanno dove abito”. M.H. è il fratello di uno dei tre uomini che solo il giorno prima erano stati arrestati dai carabinieri a Pogliola: i militari li ritenevano responsabili dell’incendio appiccato all’abitazione dell’imprenditore, “reo” di aver commesso uno sgarbo nella compravendita di un locale kebab a Mondovì. Due sono stati in seguito condannati sia in primo grado che in appello, il terzo ha patteggiato.
Assieme ad M.H. è finito sul banco degli imputati un suo zio, S.H., figura di primo piano nella comunità egiziana di Torino. Immigrato in Italia negli anni Novanta, è ritenuto essere a capo di un clan familiare che gestisce alcuni banchi al mercato di Porta Palazzo e svariate attività. Circa ottocento egiziani graviterebbero nell’orbita della famiglia, tanto che S.H. - a detta di uno dei testimoni - agirebbe anche come giudice e paciere nelle contese tra connazionali. Il giorno dopo l’incendio, l’imprenditore si era recato a lavorare a Cuneo. All’uscita dal minimarket, intorno alle ore 12, sarebbe stato avvicinato da M.H. e da S.H. e intimidito: “Loro non mi lasciano stare, - ha ripetuto in aula - perché in Egitto fanno così per vendicarsi, ti bruciano casa. Sappiate che se mi succede qualcosa sono stati loro”.
Entrambi gli imputati si erano presentati al giudice per rendere la propria versione. Pur negando di aver incontrato la parte offesa, hanno confermato di essere venuti nella Granda due volte, nei giorni successivi. Unico intento - a loro dire - era quello di mettersi in contatto con un avvocato a Mondovì e poi attendere la scarcerazione del parente arrestato e condotto a Cerialdo.
Una circostanza in particolare ha indotto il sostituto procuratore Attilio Offman a sostenere la richiesta di condanna, quantificata in due anni e quindici giorni di reclusione: “La parte offesa dice di aver sentito affermare dagli imputati, il giorno in cui era stato minacciato, che sarebbero andati in caserma dai carabinieri a Mondovì. Sappiamo per certo che ciò è avvenuto nella stessa mattina. Ma se non si sono visti, come avrebbe fatto lui ad essere al corrente dei loro movimenti, già quando aveva presentato la querela?”. Le difese, dal canto loro, avevano rilevato incertezze nelle dichiarazioni del denunciante, relative in particolare all’identità della persona che avrebbe estratto la pistola (mai ritrovata).
Il giudice ha comunque ritenuto sufficienti le evidenze raccolte e pronunciato un verdetto di colpevolezza. In aggiunta alla pena detentiva, nei confronti dei due imputati è stato confermato il divieto di avvicinamento alla persona offesa.
a.c.
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