‘Nascondevo i segni delle botte di mio marito per inventarmi una vita felice’
La relazione con l’uomo, originario del Centro America, era entrata in crisi dopo il ritorno in Italia: ‘Mi sentivo in colpa’, spiega la donna che lo ha denunciatoLa loro storia d’amore era cominciata in Centro America, dove lei lavorando nel settore alberghiero aveva conosciuto F.M., con cui sarebbe andata a convivere nel 2015. Una relazione proseguita con alti e bassi fino alla nascita del figlio e alla decisione di rientrare in Italia, solo per un periodo, vista l’incertezza economica.
Qui, a partire dal 2017, sono cominciati i problemi: per lui la frustrazione di ritrovarsi da solo in un Paese straniero, senza permesso di soggiorno e senza un impiego stabile. Per lei il dramma di conciliare il lavoro, la vita da neomamma e il tentativo di salvare la relazione con un uomo sempre più disperato e aggressivo. Mesi di liti continue, recriminazioni e botte, secondo la ricostruzione della donna, fino alla decisione di dire basta e denunciarlo, dopo l’ennesimo ingresso in ospedale e le ennesime bugie con i colleghi.
Il 19 febbraio scorso mamma e figlio sono stati portati in una struttura protetta gestita dall’associazione Mai + sole. E ora F.M. è chiamato a rispondere in tribunale di maltrattamenti continuati in famiglia, aggravati dalla presenza di un minore. “In casa c’era una situazione terribile: escrementi di cane, una pila di pannolini da bambino sporchi in bagno. L’aria era irrespirabile, tanto che avevamo dovuto mettere un fazzoletto davanti al naso per proseguire l’ispezione” ha raccontato uno degli agenti di Polizia che avevano effettuato il sopralluogo in casa della giovane coppia.
La famiglia era stata seguita dai servizi sociali già dalla nascita del figlio, quando vivevano presso l’abitazione della madre di lei. Sulla guancia del bambino di pochi mesi la pediatra aveva riscontrato un livido, che i genitori avevano attribuito a un bacio troppo energico del padre. In seguito c’erano stati vari interventi delle forze dell’ordine e dei sanitari, su richiesta di entrambi. “Lui non sopportava la mia famiglia e mi accusava di non fare nulla per aiutarlo con il permesso di soggiorno” ha spiegato la donna. A luglio 2017 il matrimonio e il trasferimento in un'altra località nei dintorni di Cuneo, senza nessun miglioramento. Anzi, proprio da allora le cose avrebbero cominciato ad andare sempre peggio: “In novembre mi aveva picchiata con il manico di ferro di una scopa, durante un litigio. Erano arrivati il 118 e la Polizia, ma non ero andata al Pronto Soccorso”.
Stessa situazione a pochi giorni di distanza, quando l’uomo l’avrebbe colpita con una padella alla testa mentre lei teneva il bambino in braccio. Questa volta era arrivato il ricovero, ma non la denuncia: “Ai medici avevo parlato solo di un attacco d’asma dovuto allo stress. Mi sentivo in colpa per l’infelicità di mio marito e speravo di riuscire a tornare in America con lui”. Nemmeno il nuovo accesso in ospedale, a dicembre, era bastato a cancellare questa speranza: “Eravamo in macchina con il bambino, voleva che lo aiutassi a trovare della marijuana. Mentre guidavo aveva cominciato a picchiarmi e tirarmi i capelli, era agitatissimo e alla fine mi aveva chiesto di portarlo dai Carabinieri perché voleva farsi aiutare con i documenti”.
Ci sarebbe voluto un altro anno, dopo un nuovo trasferimento, per convincerla che la situazione era ormai insostenibile: “Quando era così agitato, l’unica soluzione era allontanarmi per qualche minuto, anche a costo di scappare dalla finestra. Ai colleghi che mi vedevano con la faccia piena di lividi raccontavo di aver preso in faccia il portellone della macchina. Mi inventavo una vita felice”. Il marito, dal canto suo, ha negato di aver mai alzato le mani per primo: “Lei mi picchiava, già quando convivevamo nel mio Paese. Avevo anche pensato di lasciarla, ma poi mi disse di essere incinta e di voler tornare a tutti i costi in Italia”. Una versione su cui il suo difensore ha basato la richiesta di assoluzione, parlando di “una relazione turbolenta fin dall’inizio” e di “uno stato psicologico che non permette di parlare di maltrattamenti, dato che era lui ad essere dipendente da lei”.
Il pubblico ministero Francesca Lombardi, al contrario, ha motivato la richiesta di condanna a due anni e mezzo di carcere senza attenuanti generiche in considerazione della quantità di episodi documentati nel tempo dalla parte offesa, con il supporto della documentazione medica. L’imputato sarebbe un uomo “dalla personalità istrionica e manipolatrice, che ha accusato la moglie di essersi autoinflitta le lesioni sebbene più di una volta lei fosse finita al Pronto Soccorso con evidenti segni di percosse”. Per la rappresentante dell’accusa, anche “i momenti di presunta serenità sono tipici dei casi di maltrattamento”: un tentativo di nascondere a tutti, a cominciare da se stessa, l’impossibilità di salvare la famiglia.
Il prossimo 25 novembre è in calendario l’ultima udienza, con le eventuali repliche e la sentenza.
a.c.
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