Reddito di cittadinanza, madre di quattro figli finisce a processo per un errore nella domanda
La donna aveva indicato come conviventi i minori, in realtà allontanati dai servizi sociali: “Uno sbaglio in buona fede” hanno sostenuto pm e difensoreÈ un caso umano, più che giudiziario, quello riguardante una madre finita a processo per falso in seguito alla presentazione di due domande per il reddito di cittadinanza.
La signora, un’italiana residente a Dronero con il marito, si era vista rinviare a giudizio a seguito di una segnalazione dell’Inps all’autorità. Le si contestava di aver ottenuto in modo indebito circa 27.700 euro, in un periodo compreso tra l’aprile del 2019 e l’agosto del 2021, indicando un nucleo familiare convivente di sei persone: lei, il marito e i quattro figli. Solo che questi ultimi, si è appurato, erano tutti stati allontanati dai servizi sociali fin dal 2017. L’errore nasce dal fatto che mentre il più grande dei ragazzi aveva sempre mantenuto la residenza in famiglia, anche nel periodo trascorso presso una coppia affidataria, i tre fratelli minori erano stati presi in carico da varie strutture e avevano cambiato anche la residenza.
Il responsabile dell’agenzia prestazioni e servizi individuali dell’Inps di Cuneo, sentito come testimone, ha spiegato di aver tentato una “mediazione” con la famiglia, almeno dal punto di vista economico: “Abbiamo offerto la massima dilazione rateale, ma non è stato pagato nulla”. La legge prevede che, in caso di attestazione non veritiera sullo stato di famiglia, il reddito debba essere restituito per intero. Comprese le somme a cui il beneficiario avrebbe avuto comunque diritto, se indigente.
Moglie e marito hanno ammesso di non essere in grado ad oggi di restituire quelle somme, nemmeno in parte. Lui si mantiene con lavoretti in nero, dopo aver fatto lo stagionale della frutta e il muratore. Lei ha lavorato nell’assistenza sanitaria, come lavapiatti e in agricoltura: è disoccupata dal 2016. L’imputata ha riferito che, all’atto della compilazione delle domande, nessuno le aveva chiesto se il suo nucleo familiare fosse variato nel tempo. L’operatrice del Caf Cisl di Cuneo che l’ha seguita ha riepilogato la procedura: “Quando una persona ha già fatto l’Isee presso il nostro ufficio inseriamo il codice fiscale, chiediamo nome e cognome dei componenti del nucleo familiare e procediamo alla dichiarazione. Sono autocertificazioni, quindi non effettuiamo verifiche ma ci limitiamo a recepire la domanda”.
All’esito dell’istruttoria, accusa e difesa si sono trovate concordi nel domandare l’assoluzione. “Il punto è comprendere se davvero la signora avesse ben chiaro cosa stesse dichiarando” ha esordito il pubblico ministero Alessandro Borgotallo: “Non è una procedura di immediata comprensione quella del reddito di cittadinanza. E forse non sempre vengono forniti gli strumenti per comprendere”. L’avvocato Davide Ambrassa ha condiviso le conclusioni della pubblica accusa, aggiungendo che la giurisprudenza è divisa su quale beneficio “indebito” debba essere individuato, nei casi in cui non si contesta il diritto a ricevere il sussidio, ma l’entità dello stesso.
Il giudice Elisabetta Meinardi, accogliendo le richieste delle parti, ha pronunciato sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
a.c.
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