Crollo del viadotto di Fossano, tutti contro Anas: “Ha avuto un trattamento di riguardo”
I difensori degli imputati del disastro puntano il dito contro l’ente stradale: “Ignorò le macchie di umidità sul ponte”. Il 24 settembre arriva la sentenzaTerza e ultima udienza dedicata alla discussione sul crollo del viadotto di Fossano, nell’aula assise del tribunale di Cuneo. Dopo la requisitoria dei pm Stea e Pesucci - sette richieste di condanna fino a due anni di carcere, cinque assoluzioni - è il turno delle difese restanti.
Per il disastro del 18 aprile 2017 lungo la Statale 231 sono alla sbarra dodici tecnici delle imprese costruttrici e funzionari Anas. Oltre ai dipendenti dell’impresa che costruì il viadotto “La Reale” - la Grassetto spa, ceduta negli anni Ottanta a Ligresti e poi liquidata - e di quella che fornì i conci prefabbricati del ponte - la Ingegner Franco, anch’essa scomparsa - sono imputati anche l’amministratore e il responsabile tecnico della Pel.Car., azienda che eseguì i lavori di sostituzione dei giunti nel 2006, ovvero quattordici anni dopo la costruzione del viadotto sulla tangenziale fossanese.
Lo snodo fondamentale, per l’accusa, è l’insufficiente iniezione di boiacca, una miscela di cemento e calce che avrebbe dovuto proteggere i cavi di precompressione del ponte. Così non avvenne, almeno non nel punto in cui i cavi, ossidati, finirono per spezzarsi. A ciò avrebbero concorso, però, ulteriori errori nei lavori di manutenzione del 2006, viziati da una cattiva impermeabilizzazione e dal fatto che l’impresa non realizzò, come da progetto, una canaletta per lo scolo delle acque lungo il massetto. “Nessun dolo, ma una sciatteria nell’esecuzione di operazioni di carattere elementare” sostiene il sostituto procuratore Pier Attilio Stea. “Lavori alla carlona”, per dirla ancora più in soldoni.
Non ci sta l’avvocato Enrico Calabrese, difensore del capocantiere della Grassetto Mauro Tutinelli. Il legale critica a sua volta le indagini e in particolare l’atteggiamento degli inquirenti nei confronti dell’Anas: “È una sorta di assoluzione del sistema” dice a proposito della sentenza con cui, in abbreviato, sono stati scagionati due tecnici di Anas. “Uno dei due imputati - spiega - è assolto perché nella settimana in cui sono stati posti i giunti era in vacanza”. Eppure, aggiunge, i segni premonitori del disastro c’erano ed erano visibili: si tratta delle famose infiorescenze, le macchie di umidità all’esterno. La Procura non le ha ritenute dirimenti, perché si trovavano sul lato “sano” del ponte: se anche si fosse deciso di analizzarne le cause, in quel punto non si sarebbe trovato nulla. Per l’avvocato Calabrese la questione è diversa: le macchie andavano segnalate, a prescindere, ma in Anas non lo fece nessuno. “Che ci fossero indici di criticità - osserva - è pacifico: le macchie d’umidità erano visibili almeno dall’ottobre 2010, poi c’erano le fessure di cui ci parlano i consulenti e la differenza nello spessore dell’asfalto”.
Sintomi di cui l’ente stradale avrebbe dovuto preoccuparsi, in base alle circolari e ai quaderni tecnici. Invece, ribatte il difensore, “qui è tanto se Anas sapeva dell’esistenza della struttura”: “Tutinelli non ha mai lavorato sui giunti” aggiunge, dunque non spettava a lui occuparsene, tanto più che sul cantiere rappresentava “l’ultima ruota del carro”. Un neoassunto, senza potere di firma: “Nell’ultimo verbale, il 9 giugno 1992, non era nemmeno segnata la sua presenza”. Contro la Procura e l’Anas, parte civile nel processo, spara a palle incatenate anche l’avvocato Pierluigi Ciaramella, difensore di Marco Sibiglia, ovvero il “braccio destro” del direttore lavori di Anas Angelo Adamo. Anche lui un neoassunto, all’epoca, anch’egli, secondo la difesa, un’ultima ruota del carro: “La prova dell’innocenza di Sibiglia è che lui non è mai andato a controllare i lavori, nessuno glielo ha mai chiesto e noi abbiamo dimostrato che non lo ha mai fatto”. “Nell’ambito di una struttura scalcagnata come l’Anas, - prosegue l’avvocato - in cui per controllare un’opera del genere si mandano a puntate un ingegnere, un geometra e un praticante, forse bisognava farsi qualche domanda di più e il trattamento di riguardo nei confronti dell’Anas andava un po’ rivisto”.
Infine la Pel.Car., l’azienda che arrivò a cose fatte, nei primi anni Duemila, ma che avrebbe aggravato il quadro con altri “lavori alla carlona”, innescando il processo corrosivo. Lo dicono i consulenti dell’accusa, in particolare il professor Roberto Doglione. Ma Doglione dice anche un’altra cosa, fondamentale per le difese: “Non si conoscono i tempi di innesco. Avendo visto le guaine, la facilità con cui entrava l’acqua e le corrosioni scommetterei che il processo abbia avuto inizio undici anni prima del crollo e non ventiquattro. Ma non è una considerazione basata su evidenze scientifiche”. Lo sottolinea l’avvocato Francesco Sgambato, legale dell’ad e del responsabile tecnico di Pel.Car., ma anche l’avvocato Marco Landolfi che difende Giulio Accili, direttore del centro manutentorio Anas all’epoca: “Non solo manca la prova che i giunti presentassero difetti di impermeabilizzazione, ma soprattutto che questi difetti, ammesso che esistano, risalgano ai lavori di sostituzione del 2006” osserva Landolfi. La protezione dei cavi, aggiunge Sgambato, doveva essere assicurata dalla boiacca, perché “l’impermeabilizzazione serve ad altro”. “È fondamentale - spiega - sapere dopo quanto tempo sia stata messa la boiacca: non c’è alcun accertamento sul punto e i lavori sono stati effettuati da più imprese”.
Già annunciate le repliche del pm: arriveranno il 24 settembre. Insieme, finalmente, a una sentenza.
Andrea Cascioli
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