“Dopo Cucine da incubo, Caserme da incubo”: chieste tre condanne per l’intossicazione in mensa
Una piccola “epidemia” alla caserma “Dalla Chiesa” di Fossano. Sotto accusa il polpettone e il pollo, ma il batterio si sarebbe diffuso per via dei coltelli non lavatiIl pubblico ministero ha scomodato anche una nota trasmissione televisiva per concludere il processo sull’intossicazione di massa alla caserma “Dalla Chiesa” di Fossano: “Ho pensato al programma ‘Cucine da incubo’ e leggendo gli atti mi verrebbe da parlare di ‘Caserme da incubo’”. Dopo un pranzo in mensa, nel luglio del 2019, ben 41 dei 190 militari in forza al 32esimo Genio Guastatori accusarono malesseri e sintomi di gastroenterite. Tra questi diciannove si recarono in ospedale e uno, il più grave, fu anche ricoverato.
Quest’ultimo, insieme a un collega, si è ora costituito parte civile contro i presunti responsabili: G.D.P. e A.S., il legale rappresentante e il responsabile della sicurezza alimentare per la Ladisa Ristorazione di Bari, l’azienda che assicurava i pasti a tutte le caserme italiane, e M.B., il cuoco della mensa. Le accuse contro di loro sono di lesioni personali e commercio di sostanze alimentari nocive e per tutti e tre la richiesta è di condanna, a cinque mesi. Galeotti furono il polpettone con i funghi e le cosce di pollo, almeno secondo le ipotesi degli inquirenti: “All’epoca - ricorda il pm Davide Fontana - non eravamo ancora abituati a parlare di ‘epidemia’, ma l’ampia diffusione che ha avuto questo episodio di gastroenterite dovuta a un batterio si può definire così”. Il “killer” è il Campylobacter jejuni, sostiene l’accusa: un batterio molto comune nella ristorazione e simile alla più nota salmonella, che si sarebbe diffuso tramite i coltelli della cucina.
Lo proverebbe il fatto che i cibi erano stati cotti, dunque la contaminazione doveva essere avvenuta prima: troppo improbabile, dal punto di vista statistico, un contagio “casuale”. Tanto più che le altre cause ipotizzate, a cominciare dall’acqua, erano state escluse dopo le analisi: “La mancata disinfezione delle attrezzature della cucina è l’unico vulnus che può aver determinato l’episodio epidemico”. Sono d’accordo gli avvocati Garnerone e Brienza, rappresentanti delle due parti civili, che hanno chiesto un risarcimento danni. Tra i militari costituitisi nel processo c’è un soldato che era rientrato da circa un mese dal viaggio di nozze nei Caraibi. Un particolare importante, questo, dal momento che secondo la tesi difensiva a provocare l’intossicazione non sarebbe stato il Campylobacter, ma la Cyclospora cayetanensis: un parassita endemico nei Paesi tropicali, appunto, a cui due dei pazienti che avevano fatto ricorso all’ospedale erano positivi. Ma il militare neosposo, obietta l’avvocato Livio Garnerone, era rientrato in servizio senza accusare gravi sintomi, prima del famigerato polpettone.
“Si chiede una sentenza di condanna penale sulla base di un principio statistico” osserva invece l’avvocato Alberto Leone, difensore dei rappresentanti della Ladisa: “Abbiamo prodotto cinquanta verbali di militari che hanno mangiato questi cibi e non hanno avuto alcuna problematica”. E ancora: “Non è stato analizzato il polpettone che avrebbe determinato il contagio, ma tutti i cibi analizzati erano negativi. L’altro grande vulnus dell’indagine è che non sono state campionate le materie prime, che erano di proprietà dell’Esercito Italiano e non della Ladisa: forse proprio per questo non lo si è fatto”. Il legale del cuoco, l’avvocato Francesco Sabre, ha osservato come secondo uno dei testi gli utensili venissero disinfettati e riposti in un cassetto, così come prescrive la normativa. In ogni caso, se al cuoco non fossero stati forniti i disinfettanti e se il termometro del bancone era rotto da tempo - altro rilievo mosso dall’accusa -, lui non avrebbe avuto responsabilità: “Non si sa come la malattia si sia diffusa, non si possono attribuire colpe a uno o all’altro”.
La sentenza del giudice è attesa per il 9 gennaio.
Andrea Cascioli
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