Fossano, resta il mistero su chi sparò al meccanico 26enne in via Mondovì
Il processo sulla sparatoria del 2015 si è chiuso con la condanna per lesioni di entrambi gli imputati, padre e figlio albanesi. Cade però l’accusa di tentato omicidioSi è chiuso con la condanna di entrambi gli imputati a quattro anni di carcere il processo per la sparatoria avvenuta la notte del 30 novembre 2015 nei pressi dello stabilimento Unifarma di Fossano.
A.K. e suo figlio R.K., impresari edili di nazionalità albanese, sono stati riconosciuti colpevoli di lesioni aggravate nei confronti di un pregiudicato fossanese, T.G., titolare di un’officina meccanica. Nei loro confronti è caduta però l’accusa più grave, quella di tentato omicidio. I due erano stati rinviati a giudizio a seguito del ferimento del meccanico 26enne, colpito da un proiettile alla mandibola. I giudici tuttavia non hanno ritenuto sufficienti le prove raccolte dalla Procura a sostegno di questa ipotesi.
All’origine del sanguinoso scontro ci sarebbe stata una rissa scoppiata in un locale del centro di Fossano tra R.K. e T.G., conoscenti di lunga data. Il padre di R.K. era intervenuto in un secondo tempo per avere dal giovane un chiarimento e quest’ultimo aveva accettato di incontrare gli albanesi, presentandosi però armato di pistola insieme a un amico. Giunto alla “resa dei conti” in via Mondovì aveva fatto fuoco ferendo i due imputati prima di essere a sua volta colpito da un proiettile al volto. Per questa vicenda T.G. ha patteggiato una condanna, ma non ha saputo indicare con precisione l’identità dell’altro sparatore: in aula ha raccontato di essere stato aggredito da sei uomini (gli albanesi affermano invece di essersi presentati all’appuntamento in quattro) e di aver sparato solo per difendersi. Poco dopo avrebbe sentito A.K. dire al figlio “prendi la pistola” e sarebbe stato colpito a sua volta, senza però scorgere nulla.
In base ai riscontri emersi nell’istruttoria il sostituto procuratore Attilio Offman era giunto a ipotizzare che R.K. potesse essere in effetti il feritore: quest’ultimo aveva ammesso di aver aggredito T.G. per strappargli di mano l’arma, provocandogli varie fratture alle dita. Nella colluttazione, secondo il pubblico ministero, sarebbe riuscito anche a far fuoco con la stessa pistola: “T.G. non può essersi sparato da solo, vista la natura delle ferite. I referti medici confermano che è stato percosso e che a un certo punto ha sparato, con una reazione spropositata all’aggressione. Nel momento in cui era già in fuga qualcuno gli ha sparato a sua volta: una condotta rispetto alla quale non è invocabile la difesa legittima perché era ormai stato sopraffatto”. Il rappresentante dell’accusa aveva chiesto per R.K. la pena di cinque anni di reclusione per tentato omicidio e per il padre A.K. la condanna a un anno per la sola imputazione di lesioni. Richiesta sostenuta dal patrono di parte civile, avvocato Pier Carlo Botto, il quale tuttavia non ha escluso che le pistole potessero essere due e che A.K. avesse fornito un concorso morale al tentato omicidio.
A favore della difesa pesavano però altri elementi, a cominciare dall’esito negativo della prova stub per R.K. e dal mancato rinvenimento sulla scena di armi diverse da quella adoperata da T.G.: “Nessuno dice di aver visto R.K. con una pistola in mano e non ci sono tracce di sangue sulla scena” ha osservato l’avvocato Giuseppe Caprioli. Anche i colleghi Rosalba Cannone e Alberto Summa, per la difesa di A.K., hanno sostenuto la piena estraneità dell’assistito sia per la sparatoria che per le lesioni.
a.c.
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